Una domenica come tante altre

Le cose che ho fatto:
– corretto i compiti dei quinto
– disfatto e messo via il Natale (quasi tutto)
– mangiato
– svenuta fino alle tre e mezza
– preparato lezioni di letteratura
– preparato lezioni del biennio
– aggiornato la piattaforma online
Le cose che devo ancora fare:
– lavarmi i capelli, prima che mi trasformi in Medusa

– anche farmi una doccia, già che ci sono, visto che il relax di questa bella giornata si è tramutato in un velo appiccicaticcio di sudore che ricorda le workhouses vittoriane di cui ho letto oggi;

– cucinare
– mangiare
– cominciare a scrivere il bilancio delle competenze per l’anno di formazione (perché sì, devo ancora essere esaminata e valutata)
Le cose che volevo fare e non ho fatto:
– leggere un libro
– uscire
– guardare un film
– non fare nulla per almeno un’ora (senza dormire però).
Insomma, dopo una domenica così mi sento pronta e rigenerata per una nuova settimana di lavoro!

I libri che leggo

Leggo di tutto, leggo molto, leggo qualunque cosa mi passa sotto mano. Non sono molto selettiva, non passo molto tempo a scegliere Il Libro, e non passo molto tempo nemmeno a cercarLo, Il Libro, quello che mi illuminerà, quello che cambierà la mia vita, quello che capirò tutto. Non sono nemmeno una grande collettrice di edizioni rare, copertine rilegate, pagine di carta pregiata. Leggo i libri che mi passano sotto mano, quelli che stanno nella grande libreria di questa casa, mai aperti, quelli che riesco a scaricare su kindle, quelli inaspettati che trovo in libreria, quelli della biblioteca. Adoro leggere i libri che mi consiglia la gente, anche quando non sono un granché. Se mi consigli un libro, probabilmente lo leggo, lo compro. Non leggo chick literature, leggo pochi italiani e me ne rammarico, cerco di leggere buona letteratura, ma senza grandi pretese. Non leggo Pynchon, per dire. Pynchon mi spaventa, ma non si sa mai. Per esempio, ora sto leggendo The Fang Family e non so nemmeno perchè. L’ho trovato a un Newsagent all’aeroporto di Los Angeles, e avevo letto una recensione, forse, e e l’ho preso. E ieri ho finito Telegraph Avenue, che ho letto perché me l’ha consigliato il mio amico Ipofrigio, e mi è piaciuto tantissimo, ma non mi chiedete perché. Ci devo pensare.

Non ci sono libri però che mi hanno spalancato le porte della comprensione. Non mi aspetto rivelazioni. Forse perché è troppo acuta in me la coscienza che, dopo tutto, sono scritti da persone, e una punta di cinismo, acuitasi ultimamente, mi impedisce di pensare che ci siano persone che possano darmi la chiave per uno stato di coscienza più profondo, più illuminato. Dunque non perdo nemmeno troppo tempo a sottolineare, mandare a memoria interi paragrafi, riportare sul mio quaderno personali i passaggi che più mi hanno commosso. Questa era una cosa che ho fatto durante tutti gli anni dell’adolescenza, quando ero convinta che in un libro avrei trovato la verità, e che dovevo assiduamente cercarla. Leggevo libri e libri, e sottolineavo, sottolineavo, scrivevo appunti, dedicavo riflessioni, pensieri. E poi ho smesso. Non cerco più la verità nei libri. Non so se questo è un bene. Non credo di trovarla in un libro, la verità.

E nonostante tutto, i libri, quasi tutti, mi commuovono, direi sempre. Con l’acuirsi del cinismo, paradossalmente, è aumentata la commozione, e sono diventata molto emotiva. Questo, ovviamente non è misura di valutazione del libro. Più piango, e più il libro è bello? Direi proprio di no. La mia emotività è priva di buon gusto. A volte mi può emozionare anche una brutta frase, per la sua innocente banalità, per la sua ingenua piattezza. Più facilmente mi commuove una prosa solenne, torrenziale o sintetica, l’accostamento inaspettato di aggettivi inusuali, il mescolamento azzardato di metafore. Mi commuove la descrizione di un prato, di un papavero, di un tramonto. Mi commuove la realtà più ordinaria resa con il linguaggio difficile della filosofia, della matematica, della chimica. Quando incontro una frase così bella, la leggo e la rileggo. Ma poi mi dimentico. Non ritengo quasi nulla, se non la sensazione della bellezza. Cerco di ricordare, poi dimentico.

Altre volte mi commuovo nel seguire la trama di un romanzo. Anche questo non corrisponde sempre al valore del libro.  Spesso è semplicemente perché parla alla mia esperienza personale, ai miei desideri, ai miei rimpianti. Mi identifico quasi sempre, e non sempre è un bene. Altre volte mi lascio trasportare dai grandi amori, dalle guerre, dalle lontananze, dalle perdite. Dal senso di grandezza che traspare in Guerra e Pace, Anna Karenina,  American Pastoral, Middlemarch o The God of Small Things. A volte i libri mi chiamano. Li trovo nei luoghi più disparati e in situazioni diverse, li incontro in libreria, a casa di amici e sulla metro, si presentano a me insistentemente, come a dirmi, leggimi.  To Kill a Mockingbird o The Bell Jar, li ho trovati così.

Sento che ho perduto qualcosa ultimamente. Ma non so bene cosa, e non credo di ritrovarlo nei libri.

Il Natale Incombe

– Su questa pagina imperversa una tempesta di neve (io la vedo, non so se la vedete anche voi), e questa è una buona metafora dello stato in cui versa questo blog ultimamente.

– il Natale incombe. E con ciò ho detto tutto quello che c’è da dire sul mio stato d’animo rispetto all’avvicinarsi delle feste natalizie.

– Due bambini di prima media mi hanno fatto il ritratto. Entrambi hanno colorato la parte alta dei capelli marrone scuro. La parte più bassa marrone chiaro. Allora ho capito che forse è il momento di tornare dalla parrucchiera.

– Il lunedì e il martedì mi sveglio, faccio colazione e mi metto al computer. Dopo di che entro in una specie di trance, uno spirito si impossessa di me e comincia a scrivere la tesi. Anzi no. E’ la tesi che comincia a scrivere se stessa. Si scrive da sola. Sicuramente non sono io. E’ una sensazione molto strana e molto bella, vorrei averla anche in altri campi un po’ più creativi, che so, questo blog. Invece ultimamente questo blog, sono decisamente io a scriverlo. Nessuna musa ispiratrice. Mi sforzo di riuscire a lavorare un po’ anche nel fine settimana. Mi incito con frasi del tipo: “Dai! Quell’articolo su Rebecca in Ivanhoe di Walter Scott è fichissimo! Ti interessa tantissimo!” Ma la verità è che l’unico sforzo che devo fare è mettermi seduta al computer (e non soccombere alla maledizione della massaia nevrotica), dopo di che lo spirito della tesi si impossessa di me ed io non devo fare più nulla, è lui che scrive.

Seconda puntata

La conferenza su Joyce prosegue oggi, tutto il giorno. Mi sveglio alle 730, dedico un’ora della mia vita a sistemare una delle tre stanze sottoposte a devastazione da quando piove nel salone (attenzione, ora si chiama salone, non più camera da letto!), ora ne manca solo una. Alle 915 esco di casa, in borsetta il kindle, dentro il quale conto di tuffarmi immergermi fondermi qualora qualcuno faccia l’errore di notarmi, e un libro con le avvertenze generali da studiare per il concorso, sì il concorso, quella truffa di cui già vi parlai. Prendo la metro, circa quarantacinque minuti di metro, arrivo a roma3, prendo il caffè, faccio le scale, entro nella sala. E’ buio, devono appena aver mostrato un filmato. Si parla di Caino, riconosco che è il primo intervento della lunga, lunga serie di paper che mi porterà dritta dritta fino a sera. Prendo un foglietto, mi siedo in fondo, mi tolgo il cappello, mi tolgo la sciarpa, mi tolgo il cappotto, incrocio le gambe.

Passano circa 70 secondi.

Ripiego il foglietto, rimetto il cappello, rimetto la sciarpa, rimetto il cappotto, districo le gambe. Mi alzo.

Esco.

Un impeto di esaltazione ed ebbrezza mi assale, ho voglia di mandare tutto il mondo a quel paese, mi sento fiera ed eccitata: Joyce, vaffanculo!!! Vado in libreria, mi compro un libro, comincia a diluviare, mi infradicio i vestiti. Riprendo la metro, torno a casa.

C’è il sole, la stanzetta con la mia piccola scrivania mi accoglie. Mi rimetto a studiare.

Questo dottorato è un po’ come avere un amante

In questi due giorni di squisita solitudine, mi soffermo a riflettere sull’ingrata relazione tra una giovane fiammiferaia in carriera e il suo esigente amante: il dottorato. Il dottorato è bello, affascinante, ti seduce languido, ti emoziona profondamente, ti risucchia nella sua anima focosa e imprevedibile. Il dottorato si è scelto un luogo d’incontro che è il luogo degli incontri romantici e proibiti per eccellenza: Venezia. Non poteva trovare regno più indicato per incontrarmi e confondermi con le sue parole difficili, con il suo alto erudire, con le sue scoperte ardue ma gratificanti. Tuttavia,  come tutte le storie proibite che si rispettano, anche questa storia d’amore è destinata all’infelicità e ad una fine amara e prevedibile. La relazione con il proprio dottorato, pur conoscendo momenti di altissima intensità e  beatitudine, è una relazione  tormentata, angosciosa e a volte devastante. Scenate di gelosia, crisi di rabbia e pianti ansiosi e disperati sono all’ordine del giorno. Il dottorato è implacabile. Capriccioso ed esigente, non esita a ignorarti, punirti, affliggerti con giochini crudeli e spietati. Ti promette un futuro roseo insieme, per poi dimenticarsi di te, e abbandonarti al tuo destino di insicura dottoranda in cerca di conferme che non arrivano.  Il dottorato è un amante crudele. Il suo fascino è un oasi irraggiungibile in un deserto di frustranti attese, fragili speranze, finti sollievi.

Ieri ad esempio, mi trovavo a Venezia per motivi accademici (dottorato mi mancavi) e familiari (ziite acutissima). Sono passati mesi dall’ultima volta, eppure non è cambiato nulla. A lezione – una bellissima lezione su Se questo è un uomo – la solita emozione, la solita commozione, la solita passione. Poi, il momento delle domande. Non ci dilunghiamo su cose già dette innumerevoli volte, La Domanda non l’ho fatta. Ma avevo una domanda bellissima, puntualissima, appropriatissima. La domanda di Bagnarole, piccola fiammiferaia in carriera, preparata mentalmente  e alla perfezione, le è rimasta dentro come un fastidioso singhiozzo.

E’ un amante scomodo, ve l’ho detto.

Un dolce sottofondo

Sono arrivata in biblioteca verso le dieci, nella piccola saletta di studi postcoloniali dove non c’è mai quasi nessuno. Seduta al grande tavolo c’era una ragazza dei Caraibi, assorta nel suo studio, davanti a sé il computer e una pila di libri sulla letteratura caraibica. Accanto a lei, disposta ordinatamente, una coperta di lana viola, un lenzuolino di lino bianco, e un muretto di libri a mo’ di barriera. Sul lenzuolo disteso sopra il tavolo, ne intravedevo solo i piedini, un neonato di quattro, cinque mesi, che se ne stava buono buono, scalciava e lanciava urletti, e guardava incantato la mamma che studiava.

La giornata è cominciata bene.

Trieste, Ulysses e desideri difficili

Una settimana fa prendevo l’odioso ennesimo treno, questa volta verso Trieste. Ai primi dieci minuti di ritardo, per paura (immotivata) di perdere la coincidenza, ho fatto una micro crisi isterica con piagnucolio penoso e donne che mi consolavano compassionevoli. Allora ho capito che devo aver superato la soglia di non ritorno. Ora per almeno un mese rimarrò a Roma. Se vi parlo di imminenti viaggi, vi prego fermatemi, impeditemelo, legatemi.

La manica di Joyciani pazzi si è rivelata simpatica, amante del pub e della Guinness, com’era prevedibile del resto, così che la mia permanenza nella città di frontiera è sembrato più un ritorno all’Irlanda mia e al regime di feste e divertimenti di tanti anni fa. Ci voleva.

Dopo quattro giorni a Trieste e un convegno su Joyce, impari ad utilizzare lo Ulysses come unico metro di valutazione, come unico parametro di misura della vita e di qualunque argomento ti salti in mente. Va da sé che se ne riparlerà qui a breve.

Ora vi scrivo un numero ancora non identificato di desideri per il futuro. Desideri che, vista la mia natura nevrotica e insicura e poco propensa a regalarsi cose belle e visto il poco tempo, vengono rimandate da anni e anni. E la mancanza di tempo, si sa, è sempre una scusa.

Uno. Imparare il Charleston. Io lo so, me lo sento, ce l’ho nel sangue. E dopo aver letto quel bellissimo libro, Superzelda, è diventato un desiderio impellente. Io lo so, in quell’altra vita ero una ballerina Charleston e portavo i capelli corti.

Due. Teatro. Però non vi spiego perché.

Tre.  Viaggio lontano e di almeno un mese, come facevo anni fa.

Quattro. Imparare un po’ di Irish, non dico saperlo parlare, ma almeno sapere come si pronuncia.

Cinque. Basta, ho già detto troppo. Ora ditemi i vostri. I desideri veri e difficili.

In farmacia me lo dicono sempre che non fa bene alla salute identificarsi con le eroine tragiche

Circa un mese fa ho ascoltato una meravigliosa lezione su Le Affinità Elettive di Goethe.

A me veramente non è piaciuto molto, con quelle atmosfere rarefatte, e l’impenetrabilità dei personaggi, e tutta l’allegoria e i rimandi e i riflessi. E nessuno dei personaggi mi è rimasto particolarmente simpatico. Eduard l’ho odiato. Però in queste settimane ho pensato molto a Ottilie.

Allora. voi immaginatevi questo mondo chiuso e perfetto: il castello, il giardino, una coppia soddisfatta, completa e matura. Immaginatevi questa arcadia, questo mondo bucolico, ma nello stesso tempo privo di slancio vitale, malinconico, depresso. In questo quadretto ordinato di felicità, narrato con questo linguaggio irreprensibile, glaciale e univoco, dove i personaggi passano il tempo a dare ordine e sistemare la casa il giardino la strada (e la casa è una tipica ossessione dei depressi, vedi me), irrompe l’elemento che sconvolge tutta questa maniaca perfezione.

L’elemento è Ottilie, ma il suo entrare in scena viene anticipato da una serie di rimandi alla sua persona che la descrivono e preparano il lettore alla sua comparsa. Uno di questi rimandi è una lettera che la zia Charlotte riceve da un professore del collegio che la giovane Ottilie frequenta, e che probabilmente si è un po’ invaghito di lei. Quello che dice questo professore è molto interessante. Dice “Se c’è una ragazza con cui occorre cominciare dal principio, questa di sicuro è lei. Ciò che non segue da quanto precede, non lo capisce. Si mostra inetta, persino cocciuta davanti a una cosa facilmente comprensibile della quale non coglie le connessione con il resto. […] In questo suo lento progredire rimane indietro rispetto alle compagne che, dotate di capacità affatto diverse, corrono avanti, capiscono tutto con facilità, anche ciò che è privo di connessioni, lo rammentano con facilità e sanno poi servirsene agevolmente. […] Certo, è singolare: sa molte cose, e alla perfezione; solo se la si interroga sembra non sapere nulla”.

Insomma, Ottilie non è un’idiota come sembra. Ottilie appartiene ad un mondo diverso da quel mondo bucolico e perfetto del castello, Ottilie ha una intelligenza diversa: non capisce per ragionamenti, capisce per intuizioni, ha un’intelligenza legata al mondo sensibile, emotivo, lei non capisce le leggi delle cose, lei capisce le cose.

Capite dove sto andando a parare?

” Professoressa, lo so che lei mi ha fatto una domanda banale e ovvia, ha ragione, ma non si dimentichi che io.. ecco, ehm, io ho un’intelligenza emotiva, legata alle intuizioni, io di fronte alle domande ovvie sbarello, sì, ma non perché sono un’idiota, ma perché io non capisco le leggi delle cose, io, capisco le cose. Come Ottilie. Sì. Ottilie”.

Non credo ci sia bisogno di ricordare che Ottilie fa una fine tragica.

Come sono autoreferenziale. In farmacia me lo dicono sempre che non fa bene alla salute identificarsi con le eroine tragiche, ma al farmacista gli rispondo sempre: “Che vuole, noi, quelle della mia generazione, siamo cresciute con Candy Candy”.

E poi alla fine ci ricado sempre: la prossima volta vi parlo di Rosaura (chi è Rosaura? vediamo chi lo sa…:-))

Sempre quella volta che stavo in erasmus ed ero inesperta e sempre ubriaca.

Abitavo tra gli altri con una coinquilina irlandese che sembrava appena uscita dal film Singles. Per mesi io e i miei inquilini ci siamo lambiccati con le ipotesi più assurde sulla vita privata di questa misteriosa fascinosa avvocato in carriera proveniente da Derry: ex-militante dell’IRA? ricca ereditiera? orfana di qualche passata tragedia?

Comunque. Non è di Deborah che vi voglio parlare stasera. Vi voglio parlare di Eoin, l’amico intellettuale di Deborah. Eoin: biondo, occhialetto di tartaruga, anello d’argento al dito. Eoin, professione drammaturgo e regista. Eoin, giovane promessa del teatro. Eoin, già diverse pièce teatrali alle spalle. Eoin, pure bello. Non bello nel senso tradizionale del termine. Bello nei suoi modi ovattati e curiosi, bello nel suo fare silenzioso e osservatore, bello nella sua voce suadente e nell’accento di Dublino (che, a Cork vuol dire tanto). Deborah mi parlava sempre di Eoin, lo devi conoscere, ti piacerà tantissimo, lui si intende di letteratura, lui ti può aiutare con la tesina su Beckett, vi capirete tantissimo.

Il giorno che mi fa conoscere Eoin mi porta direttamente a casa sua. Io, a malapena mi destreggio con la loro lingua, loro più grandi di me, più adulti, più consapevoli. Deborah mi presenta. Questo è stato il dialogo:

Deborah: “Questa è la mia coinquilina. E’ molto sofisticata. Sa tutto di letteratura. E’ una vera appassionata. Com’è carina, la vedi? Ma è anche intelligente, sai”.

io: “ehm… ciao”

Eoin: “Piacere di conoscerti”

Deborah: ” E’ anche una vera appassionata di Beckett. Deve scrivere una tesina su Beckett. La aiuteresti?”

Eoin: “Ho questo poster di una rappresentazione di Beckett che ho messo in scena un paio di anni fa. Lo vuoi? tieni, te lo regalo”.

Io: “Ehm. Grazie mille.”

Eoin: “Sai. Sarei interessato a leggere un po’ di letteratura italiana contemporanea. Non ne conosco molta. Mi aiuteresti? Cosa mi consigli?”

io: “…” (vuoto)

Eoin: “Qualche nome… italiana…”

io: “…” (vuoto più totale: italia.. contemporaneo… ne ho letto uno un mese fa…come si chiamava? come?…. è…buio….qui…dentro….)

io:”…” (buttati, inventa, inventa un nome, non lo saprà mai, inventa!)

io: “… ehm…Pirandello?”

Eoin: “… contemporanea”.

io: “…” (voglio andare a casa)

Cosa avrei potuto dire allora? vediamo….Avrei potuto dire: Baricco, De Carlo. Li conoscevo, li avevo letti. Lo so non è proprio il massimo, ma sarebbero pur stati due nomi. Eco! Eco lo avevo letto, Eco lo sapevo. Neppure Eco mi è venuto in mente.

Ora ditemi voi, perché io sto qui a raccontarvi dell’Irlanda mentre dovrei essere su word a scrivere quella presentazione orale che ho per giovedì. E intanto il tempo passa, le giornate si allungano, le notti si accorciano, le rughe si scavano, i caffè si trangugiano senza sosta, e si fanno bucati che nemmeno se mettevo il maglione grigio nel tritacarne non mi usciva così.

Divagazioni sparse su ritorni a scuola, cinepanettoni, case e libercoli e accenno di incoraggiamento e sollecitazione all’ottimismo: va bene.

Oggi è ricominciata la scuola. Va bene.

Le mie colleghe hanno detto: “che bello il cinepanettone di quest’anno”. Poi siccome le guardavo hanno anche detto: “una stronzata eh, però, tanto carino. E poi Cristian De Sica è proprio forte”. Al che c’è stato un boato di consensi: “A me Cristian De Sica me fa ‘mmazzà darride! Quante me piace a me!”. Va bene.

Allora ho capito e per l’ennesima volta mi sono ripetuta: mi raccomando te devi sta’ zitta, zitta devi stare a scuola, devi parlà il meno possibile. Sì, parlà, perchè quando sto a scuola, un po’ debbo parlà anch’io così. Va bene.

Correzione compiti delle vacanze, nemmeno ve lo sto a di’ (di’). Prof! io li ho fatti tutti ma li ho lasciati in montagna! Prof! io ho fatto stamattina lo zaino, e non so, pensavo di non avere inglese. Prof! ma perché c’era anche questa pagina da fare? Prof! io li ho fatti, eccoli! (mostrandomi una pagina di quaderno di sei mesi fa). Prof! ecco gli esercizi, è questo, no, è questo, no, è questo, ma dov’è? non li trovo più, ci devono essere da qualche parte (se non lo sai te!) Va bene.

Tornare a Roma è stato bellissimo (sì il piano di passare le vacanze natalizie sola e barricata in casa è abortito miseramente). Tornare in un posto, che, nonostante tutto, mi sento a casa (quanto a sintassi, questa frase potrebbe averla scritta Vasco o, al massimo, Jovanotti). Com’è possibile, dico io, che mi senta a casa solo qui. Sì probabilmente è dovuto anche al fatto che era la città del defunto genitore e qui se volete possiamo grattarci sopra una spolveratina di Freud. A Roma mi sento a casa, e invece dopo aver vissuto per più di vent’anni nell’angolino veneto, tornare lì è sempre una gran tristezza. Tornare a Roma mi mette euforia. Poi, sarà anche brutta, però è casa mia. Ahhh casa mia che bellezza. Ci saranno anche gli infissi delle finestre talmente marci che tra un po’ viene giù tutto, però pur sempre è casa mia. E poi oggi andare al mercato ahhh che emozione, e comprare la scarola i broccoletti napoletani (chessò? come se fanno?) e le puntarelle, che goduria.

Casa. Concetto strano. Una volta pensavo che Dublino fosse casa, poi quando ci sono tornata lo scorso luglio, non mi sembrava casa per niente. Anzi mi metteva molta tristezza. E’ un po’ strano perché per alcuni casa è un concetto scontato, non è che uno deve scegliere dove deve vivere, ci vive e basta. Guarda i romani per esempio. Loro stanno sempre a lamentarsi di Roma, del traffico dello smog etc. però non è che si spostano, questa è la città loro, ci rimangono. Io invece che vivo mezza settimana qui e mezza tra Venezia e l’angolino veneto, e che ogni tanto vado nel rifugio toscano e malcapitatamente investo pure il futuro sul rifugio toscano (vi spiegherò), e poi non sto bene quasi da nessuna parte, però a roma ci rimarrei volentieri, beh insomma, per me il concetto <casa> è un concetto tutto in costruzione, molto astratto, molto volatile e mutevole.   Va bene.

Poi, già che ci sono, io volevo anche dirvi che ultimamente, tra le altre cose, ho letto The Ginger Man di James Patrick Donleavy che è un autore irlandese americano che nessuno conosce, e che però, non temete, non è il mio autore di dottorato, anche se sarebbe stato molto interessante, e che comunque leggetelo.

Va bene.