Ora non è che questo diventerà un blog di ricette e di cucina, non preoccupatevi.

Però volevo raccontarvi di quella volta che ho fatto la torta di carote con le carote condite. Avevo sedici anni.
Era il 10 agosto 1996.
Quindi ne avevo diciassette di anni, scusate.
Era il 10 agosto 1996. Avevo diciassette anni.
Questo post è composto di tre ingredienti fondamentali: la torta di carote condite, un incidente di bicicletta, la mano di un ragazzo.
Come contorno ci mettiamo: un enorme coperta colorata, le chitarre, il bagno notturno.
Occasione della preparazione del piatto: dormire in spiaggia, le stelle cadenti, l’alba sul mare.
Difficoltà di preparazione: abbastanza.
Tempi di cottura: una notte.
 
Ed ora, può sembrare che la torta di carote sia un dettaglio, un particolare insignificante, una quisquilia, e invece no. La torta di carote era tutto, la torta di carote era il cerchio perfetto che racchiudeva (oltre al sale, l’olio extravergine d’oliva e l’aceto balsamico) la concatenazione necessaria di una serie di eventi che trovavano lì il loro cuore pulsante, la loro ragion d’essere, il disco volante che avrebbe unito in un vorticoso volo pindarico terra e cielo, tramonto e alba, mare e sole infuocato.
Non li vedete, tutti disposti lì, sul tavolo, gli ingredienti perfetti di quella torta che dal forno di casa avrebbe fatto un viaggio in bicicletta, sarebbe caduta rovinosamente per terra, avrebbe fatto tappa in ospedale, e sarebbe poi approdata in riva al mare, tardi, già tardi, quando tutti erano già lì, quando le torte di cioccolato e le crostate di frutta e le cheesecake al caramello erano già state mangiate? Non li vedete?
Eccoli gli ingredienti, e soprattutto l’ingrediente speciale, la terrina di carote condite che dal frigorifero fecero scattare in automatico l’idea di una torta originale, una torta fuori dal comune, la torta di carote! Solo poi, quando la torta venne assaggiata, la cuoca ignara e i fruitori golosi poterono rendersi conto che qualcosa non andava, che c’era un gusto di troppo, un unto, un acidulo in più, e per questo motivo, all'alba, la torta volò, letteralmente, in mare, come un disco volante arancione, come un secondo sole che invece di sorgere, tramontava, fallito, nell’acqua.
 Ora torniamo indietro, guardate quella ragazzina emozionata, coi riccetti scomposti e la bicicletta sportiva, guardatela, con il suo zaino dell’invicta zeppo di coperte, bottiglie d’acqua, felpa, pila, calzettoni, e in cima per non sgualcirlo, un pacchettino rotondo avvolto in alluminio. Ognuno porti qualcosa. Io porto una torta di carote. È molto emozionata, ma non è il primo anno che si dorme in spiaggia il 10 agosto. No, è almeno il terzo anno.
 È già una tradizione ormai. Ma non importa, in questi casi la ragazzina tutta riccetti è sempre agitata e non sa nemmeno lei il perché. È appena uscita di casa, deve attraversare la strada con la sua bicicletta. La strada a sinistra fa una lunga curva in discesa, e un ragazzo in bici si sta avvicinando a gran velocità. La ragazzina pensa: mi butto. Non mi butto. Mi butto. Non mi butto. Mi butto. Non mi butto. Mi buttooooooooooo…..!! Schianto. Scontro delle due biciclette. Corpi per terra. Mare di lacrime. Per la torta spiaccicata. No. La torta non si è fatta niente. Nemmno la ragazzina. Ma il ragazzo non si alza. È morto.
No. Non è morto. Ma bisogna andare in ospedale per sicurezza.
Voi la immaginate la scena? Metto a fuoco? Volete i primi piani? Mamma che si affaccia dalla finestra e grida: mia figlia! Il capannello di persone che si ammassano a guardare. La ragazzina che piange così tanto che nessuno ha il cuore di rimproverarla. Un paio di occhiali frantumati per terra, in mezzo alla strada. Due biciclette in un abbraccio di pedali e raggi delle ruote.
Ecco, è tutto qui. Anzi, no. E’ tutto dentro lo zaino, in ordine dall’alto verso il basso: la torta, la felpa, i calzini, la coperta. Ai lati le bottiglie, la pila, i fiammiferi, il coltellino, un paio di merendine.
Sono circa le nove di sera. L’ospedale l’attesa il collare le scuse al ragazzo ammaccato ma tutto sommato ancora vivo.
È solo alle undici che la torta di carote approda in spiaggia, intatta, e viene posta delicatamente al centro di un cerchio fatto di corpi stesi a pancia in su, alcuni a chitarra in su, alcuni ridono altri cantano, così, le solite ammucchiate giovanili, quelle che tutti già sapete ed io non ho nulla da aggiungere. Alla ragazzina ancora tremano le gambe e gli fanno male tutti i muscoli, ma che importa. Mette giù lo zaino, si toglie le scarpe, si mette sotto la grande  coperta colorata. Racconta l’episodio e ci ride su. Alza lo sguardo e aspetta le stelle cadenti.  
E sarebbe tutto qui, non ci sarebbe davvero niente di più, se non fosse per un altro piccolo dettaglio notturno. Piccolo dettaglio notturno sotto le stelle. Sotto le stelle, sotto la coperta, due mani si avvicinano. Restano intrecciate per un po’, tra una chiacchiera e l’altra. Le stelle, le onde, le mani.
La torta di carote, silenziosa, osserva, luna piena condita per sbaglio.

 

Come quella volta che… (questo post è diviso in due parti, a me piace più la seconda)

Questo post è per dire che sono una persona molto molto approssimativa ultimamente. Una volta ero una persona molto precisa, poi secondo me è successo che mi sono accorta che con la metà della fatica ottenevo comunque risultati discreti, per cui ho iniziato a impegnarmi sempre meno che tanto andava bene lo stesso solo che ora diciamo che ho toccato la metà critica della mia discesa da un picco di precisione tendente alla pignoleria al fondo più nero dello sbraco totale.
vi faccio un esempio.
Domenica avevo a casa tre banane spiaccicate, la buccia era tutta marrone. si potevano ancora mangiare ma io ho pensato: perchè non fare una bella torta? La torta di domenica pomeriggio, mentre fuori c'è quel po' di sole e tu impasti, fai le misure, ti sporchi tutte le mani (io non ce l'ho il robot, e allora impasto sempre con le mani, che mi piace tanto). Io per esempio, ho sporcato di farina tutta la tastiera del computer che mentro impasto ascolto i podcast di radio tre, e anche in questo potete capire quanto io sia approssimativa con tavolo di cucina sporco di uova farina zucchero unto di burro e il computer in mezzo a tutto questo pastrocchio. Ma il computer mi serviva anche per un altro motivo, e cioè che la ricetta l'avevo trovata sull' internet. E qui sta l'inconfondibile tocco artistico della persona confusionaria: io non ho selezionato una ricetta, vagliando tra le mille che ci stanno sull'internet, no no. eh, troppa fatica. Ho scelto la prima che mi è venuta su. Allora, in effetti c'era qualcosa di strano in questa ricetta, le misure non mi convincevano troppo perchè le dava prima in cup unità di misura sconosciuta, che ho interpretato come tazze (complimenti professoressa!), però dava anche la misura in grammi che però non mi pareva corrispondesse tanto alle cup e allora non mi sono posta troppe domande, gli ingredienti ce li avevo tutti e questa era la cosa fondamentale che i supermercati di domenica pomeriggio sono chiusi. Uova, zuchero di canna, burro, banane tre, ok, poi la farina. 435 gr di farina. La peso, non finisce più, mi fermo a 350 gr perchè la bilancia mi pareva bloccata ma mi sa che erano ore che versavo farina quando mi sono accorta che la bilancia non dava segni di crescita.
Comunque, dovevo ottere "una pasta morbida, omogenea, cremosa". Io dopo un po' che impastavo mi sono trovata tra le mani una mega pagnottona tipo pizza, tutta appiccicosa e irregolare…
Ah scusate ma poi mi dimenticavo la chicca del lievito. Diceva di mettere tre cucchiaini di lievito per dolci…io non ce l'avevo però avevo un granulato di lievito di birra. Ne avevo abbastanza. Seguo quello che dice sulla confezione aggiungo un cucchiaino di zucchero e lo diluisco con acqua tiepida finchè non viene una schiumetta…ummmm che odorino! Ora, come  faccio a calcolare tre cucchiaini da questo bicchiere pieno di mucillagine? Umm.. a caso! Facciamo… ma sì, facciamo una mezza bicchierata di lievito di birra! Là, così va bene. Butto tutto in forno. La pasta cresce, cresce, cresce….Insomma altro che torta, io ho fatto la pizza di terni alle banane! una cosa alta 20 centimetri, informe e marroncina che è sostanzialmente un pane venuto male col sapore di banana…Io mi immaginavo una torta dolce dolce, da mangiare la sera tutti insieme, cremosa e bananosa…e invece, è venuto questo sgorbio…
in realtà a casa c'è stato qualcuno che ha apprezzato, ma mi sa che tra qualche giorno cominceremo a giocarci a rugby con la mia torta alle banane…
La morale della favola è: quando scegliete una ricetta sull'internet, mi raccomando attivate le vostre strategie cognitive di selezione, discernimento e classificazione.

Come quella volta che stavo in Irlanda, la prima volta quando ero ancora giovine e sempre ubriaca. Una mattina era vicino natale, volevo portare a casa, in Italia, gli scones fatti da me. Io sono un'adoratrice di scones, che sono dei panetti irlandesi pesi di burro, con o senza uvette. Che bello! Portare alla mia mamma gli scones dolci e freschi di panetteria, ma non di panetteria ma fatti da me. Che poi, voi vi pensate che io mi sia messa a prendere le misure con la farina e il burro. Macchè, non ce la potevo fare. Ho comprato il preparato già pronto dovevo solo aggiungere il latte. Mica sprovveduta la ragazza…per fare bella figura con la sua mamma, basta aggiungere il latte, dare una mescolatina e via in forno, venti minuti già pronti!
Mi sveglio, era una domenica mattina anche quella volta. I coinquilini dormivano tutti. Saranno state le undici, mattina presto. Leggo attentamente le istruzioni sul pacco. Erano in inglese ma la misura del latte è chiara, è in millilitri, come in italiano, facile no? Leggo: 250 ml. Mmmmm, ok… qui c'è bisogno di qualche equivalenza, ma la posso fare a mente…mmm…vediamo, ah sì. OK: fanno due litri e mezzo di latte! porca miseria, non ce li ho, devo andare a comprarli. Corro su, mi vesto in un lampo, esco. Torno con i miei due bottiglioni di latte intero (cremoso e burroso quello irlandese). Torno in cucina. Mmmmmm… ora dove lo metto tutto questo latte? Ummm…ma sì, certo! La bacinella del bucato. dio quanto sono ingegnosa! La lavo per bene, ci verso i due litri e mezzo di latte. Ecco ora viene la parte più difficile:  aggiungere il preparato e mescolare per bene finchè non risulti una pasta elastica e omogenea, (tipo quella del pane o dei biscotti, ora non ricordo). Mmmmmmm….ok…versare….
Plof.
Fa il preparato quando cade nella bacinella colma di latte.
M. Faccio io, un pochino interdetta…ma poi mi riprendo e tutta entusiasta e curiosa mi appropinquo a scoprire come quel po' di farina possa asoorbire tanto latte. Non mi viene il minimo dubbio.
Prendo un bel mestolone di legno (strano che non abbia usato il battipanni) e comincio a mescolare di buona lena.
Mescola mescola.
Mescola mescola.
Mescola mescola.
Niente.
Da molto lontano, quasi in sordina, sento come un campanellino dimenticato, ma ancora non riesco a capire. Poi il campanellino comincia a tintinnare un po' di più….Ma….non è …che….forse……ho sbagliato l'equivalenza?!?!
Ancora non sono convinta. Prendo carta e matia. Mi siedo al tavolo. Non mi capacito.
Rifaccio la proporzione: 250:X=10: … (scusate non la so fare nemmeno adesso…). Però allora, me lo ricordo bene, a un certo punto ho capito!! EUREKA! 250 ml è poco più di un bicchiere di latte!!!
Io mi sa che non mi rendevo molto conto dell'assurdità della realtà in cui vivevo, della follia dei miei pensieri ben ragionati…
Sentite poi…
Mo che ci faccio con tutto questo latte, mica vorremmo sprecarlo…e poi.. gli scones! No, non mi perdo d'animo, ecco cosa salverà il regalo per la mia mamma: questo magnifico colino da tè!!! Ecco, ho passato tutto il latte, per salvare la farina dispersa, e con quello che sono riuscita a recuperare, io gli scones, li ho fatti!
Mmmmmmmm che buoni!! non vi dico. Ho dovuto cedere all'evidenza…sono andata a comprare un altro mezzo litro di latte e un preparato nuovo, e li ho rifatti da zero, e questa volta, con l'esperienza maturata dopo il difficile percorso da me intrapreso per diventare una pasticcera di scones con le palle, finalmente sono riuscita a fare dei veri scones. A mamma ho portato entrambe le versioni, per farle assaporare i progressi della sua giovane figliola all'estero.
La morale della favola è: quando andate all'estero, e siete delle giovini fanciulle inesperte, non esagerate con la birra.

Ora lo capite perchè sto parcheggiata in officina?

 “I’d never join a club that would allow a person like me to become a member”
Non accetterei mai di far parte di un circolo che accettasse fra i suoi soci uno come me
(Groucho Marx)

Ora non sto a spiegarvi tutto ma ecco che mi trovo improvvisamente a frequentare delle cose universitarie in quella città che vi dicevo. A parte che continua la mia saga alla ricerca dei dipartimenti scomparsi, visto che non solo americanistica non è più lì, ma nemmeno san basilio, la biblioteca generale e la banca che stava al posto della biblioteca. Così io mi ritrovo a fare ogni volta il doppio del tragitto, a piedi, si intende. Comunque, sono stata al primo seminario. Ora, ditemi, se voi andate a un seminario, che si chiama così proprio perché ci si auspica la partecipazione attiva degli studenti, e se voi in effetti vi siete preparati e sapete anche cosa vorreste dire, cioè non è che avete la testa completamente vuota, no no, anzi, siccome nel foglio introduttivo c’era scritto che si auspicava la partecipazione, quindi voi lo sapete che prima o poi dovete intervenire, allora proprio per questo motivo e perché in assoluto odiate e temete le brutte figure, allora avete passato tutto domenica e lunedì a studiare come si faceva una volta a scuola il giorno prima dell’interrogazione, lottando eroicamente contro il sonno che in treno vi faceva cadere pesantemente le palpebre (che bello dormire in treno), dunque dicevo se voi aveste fatto tutto questo e vi si presentasse in effetti il momento buono per voi per alzare quella manina fatta apposta per essere alzata in classe e via! dare sfogo alla vostra diligenza frustrata, voi, lo fareste? No, dico, se si presentasse proprio quella data occasione in cui, voi, e ripeto, solo voi, conosceste la risposta ad un tale quesito, perché, per puro caso, voi e solo voi avete letto quel passo di quel dato libro, la notte prima giusto prima di andare a letto, voi la alzereste quella dannata manina, per dire, finalmente, con fare trionfante e vittorioso: “IO! Io, la so!” ?
Voi lo fareste, sono sicura. Voi non siete come me.
Permettetemi questa rivalsa anonima e inutile, lasciatemi dire, qui, inascoltata nel silenzio della mia stanza: “Io! La so!”. Tanto è troppo tardi.
Io la sapevo, la risposta, ero l’unica, a saperla.
Io la sapevo, ma nella lotta interiore tra l’io che voleva alzare la mano, e l’io che si cagava sotto come al solito, mi è venuta la tachicardia, la sudorazione, mi scappava da andare in bagno, mi si è annebbiata la mente, mi veniva da vomitare, mi tremavano le mani come se mi fossi inalata un ventolin intero. Per fortuna tutto accade dentro di me, e speriamo che la mia vicina di banco non si sia accorta che accanto aveva una in preda ad una crisi di “voglio-rispondere-ma-ho-paura”. Il fatto è che se avessi risposto, mi sarei dimenticata quello che volevo dire…ne sono sicura, ci pensate: “Io la so! La so…la s… oh, no, mi sono dimenticata quello che volevo dire”.
Insomma, non ho risposto.

Ora lo capite perché sto parcheggiata in officina??

Sono arrivata alla stazione di Padova verso le sette di sera. C’è un piazzetta lì davanti, come la maggior parte delle stazioni italiane, qualche albero, la stazione degli autobus, i sampietrini a terra, i tassì. Alle sette di sera del 27 settembre la luce è bagnata. Tutto è lucido, come se il cielo si specchiasse sul marciapiede, come se avesse piovuto, ma senza la pioggia. Ancora non fa buio, ma il sole è tramontato e le case e gli alberi e l’aria stessa hanno quel colore rosa aranciato tipico delle città al tramonto. La gente passa con lo sguardo del ritorno negli occhi. Camminano veloci, silenziosi. Un clacson, una bicicletta, i vetri della stazione ci osservano dall’interno. Fa freddo, stasera. È piovuto l’autunno.