Cioccolatino

Ripasso in quinta in vista dell’esame di maturità.
– Allora ragazzi, abbiamo parlato di Joyce, chi mi sa dire che cosa si intende per “epiphany”?
– Ah si prof. “epiphany”, quella del cioccolatino!
– …
(processo mentale sottostante: Joyce- Epiphany- Proust- Madeleine – Cioccolatino….Epiphany = Cioccolatino)

my oh my

Le parole del pesce

Parlare con una persona che non conosci è come imparare un’altra lingua. Anzi, è come disimparare la tua lingua madre e non avere più una lingua con cui comunicare. Ecco allora che ti inventi espressioni tutte nuove, gesti strani che non hai mai utilizzato, metafore bizzarre, ecco che ti inventi una te tutta nuova che non conosci neppure tu e che non sai nemmeno da dove sia uscita. Parlare con una persona che non conosci è perdere le parole note, è indicibilmente complicato, specialmente per una che le parole le ha già dovute smarrire quando ha imparato una lingua straniera e che già si è dovuta rassegnare a non trovare più la parola giusta in italiano ma avercela pronta in inglese, ad avere dentro sé una lingua spezzettata, fondamentalmente inutile, spesso rimpolpata di frasi fatte e luoghi comuni, forse completa in un intreccio delle due, ma povera e insufficiente senza l’una o senza l’altra. Condizione del resto abbastanza ridicola per una non bilingue. Ed ecco oggi un nuovo inciampo linguistico, un nuovo passo falso nello smarrimento delle parole. Conoscere una persona nuova è perdersi nel vuoto, senza riferimenti linguistici stabili, è come andare all’estero, è come voler imparare a parlare la lingua dei pesci. Farsi crescere un paio di branchie.

Essere una persona senza linguaggio è come essere una persona disabile ed io così mi sento oggi. Muta, comunico con sguardi, mi sbraccio per farti capire e non so nemmeno io cosa voglio mostrarti. Ti guardo afasica.

Sono un pesce, ma estremamente felice.

Micro atti di ribellione

Decide di tornare a casa da scuola a piedi. Non soltanto per la presenza di una collega alla fermata dell’autobus che l’avrebbe costretta a sfilarsi le cuffiette dalle orecchie, spegnere l’mp3, riporlo in tasca e lanciarsi in un educato scambio di frasi fatte per tutta l’attesa dell’autobus e per tutto il tragitto fino alla sua fermata. Non soltanto per questo, benché sia stato motivo scatenante. Il tepore luminoso di questa mattina, e l’impulso forse irrazionale di camminare per ripescare pensieri sommersi l’hanno spinta a semplicemente non fermarsi. Proseguire. Proseguire. Proseguire. Camminare. Sebbene i pensieri sotterrati non siano riemersi, l’atto di tornare a casa a piedi con la musica calcata nelle orecchie ha in effetti costituito un vero e proprio atto di ribellione. L’atto di ribellione è attendere. Attendere che i pensieri ritornino, i ricordi fluiscano, la nebbia si alzi.

Attendere è l’atto di ribellione. Attendere è creare sacche di silenzio, di non attività, di assenza di senso del dovere, dove il pensiero è libero di andare, cercare, risalire.

Camminare è attendere.

Don Faustone e turbe shakespeariane

Interrogazione in terzo scientifico:
1.
– What are Christopher Marlowe’s main works?
– Marlowe’s most important work is Don Faustone.
– I’m sorry?
– Don Faustone!
– …
– …
– (rivolto a un compagno) Aò! Ma che m’hai detto er nome sbajato?
2.
– Why did Shakespeare start writing sonnets?
– because, ehm, because, come se dice prof, because c’aveva bisogno de esprimere se stesso!

Una volta

  • una  volta lavorava 3 giorni a settimana. Gli altri li passava inchiodata a una sedia non troppo comoda a scrivere una tesi che sembrava non finire mai. Le sembrava una vita faticosa, ma riconosceva il piacere di poter mettere la sveglia alle 730 e di alzarsi alle 8, o anche più tardi. Ora lavora tutte le mattine, si sveglia quotidianamente alle 6.40. Sa che ci sono sveglie e lavori peggiori, ma è costantemente in preda a una stanchezza che la fa sentire a seconda dei momenti triste, arrabbiata o semplicemente morta.
  • Una volta aveva a che fare con bambini dagli 11 ai 13 anni, una età camaleontica che alterna picchi di grande tenerezza a momenti di esasperazione; urla diaboliche a lacrime di commozione; tenere coccole e bacini a momenti in cui vorresti prenderli a sberle e sbatterli contro il muro. Dopo sei anni sapeva esattamente chi aveva davanti, e come implica il detto: Conosci il tuo nemico, ciò le aveva dato i mezzi per affrontare anche le situazioni più snervanti. Ora ha a che fare con ragazzi dai 14 ai 19 anni, una fascia di età molto varia, per ora ancora misteriosa. I tempi della tenerezza e commozione sono decisamente finiti. Al loro posto, sguardi torvi, cattivo odore imperante, insofferenza e fastidio di fronte alla presenza dell’insegnante.
  • Una volta insegnava inglese, lingua, grammatica, conversazione e così via. Oggi, oltre a questo lato prettamente tecnico del proprio lavoro si è aggiunto l’insegnamento della letteratura, e ha scoperto la bellezza di trasmettere veri contenuti a menti giovani e fresche, la bellezza di raccontare storie, vite ribelli, opere affascinanti, la consapevolezza di lasciare qualcosa che ricorderanno, la certezza che tra i tanti che si chiedono ma a che ci serve questa roba, c’è sempre qualcuno che rimane incantato ad ascoltarla, che sorride quando entra in classe, e che è rimasto profondamente deluso quando è uscito inglese come materia esterna alla maturità…. “prof. NOOO!!! come faremo senza di lei!”

L’astuccio rosa

 

Mi porto a scuola un astuccino rosa. Dentro ci tengo una penna nera e una penna blu, il temperino e la gomma, il righello non ce l’ho più l’ho perso, una penna rossa e diverse matite. Sono gelosa di tutto ciò che custodisce questo astuccio, in particolare di una bic nera maciullata e senza tappo ma che scrive come voglio io, e ancora rimpiango un righello di metallo che ogni volta che cadeva faceva un gran baccano, ma che ho perso.

Alcuni dei miei studenti non si portano il materiale. Lo elemosinano ai compagni che alla fine si stufano e li ignorano. Allora intervengo io con il mio astuccio rosa. Vado alla cattedra, lo prendo dalla borsa e mi dirigo verso lo studente in questione con la matita, il temperino, o la penna in mano. Gli dico: mi raccomando dopo restituiscimela che ci tengo. Se poi ci dimentichiamo e non mi ridanno quello che gli ho prestato, mi arrabbio, ci rimango male, mi infastidisco.

C’è questo studente quest’anno. Ha 16 anni, sulla soglia della delinquenza, qualche disturbo del comportamento non diagnosticato, forse un bipolarismo latente. E’ ingestibile, fuori controllo, incontrollabile. Offende, aggredisce, provoca. La mia prima lezione mi guarda, si volta verso i compagni, lo sento dire: “Ma guardatela non ha tette, ragazzi è completamente senza tette!” e devo dire che rispetto ad altri commenti, questo era quasi un complimento.

Ma ultimamente andiamo d’accordo. Abbiamo parlato, ci siamo chiariti. Noto in lui lo sforzo di non oltrepassare il limite del rispetto.

Tiro fuori dalla borsa il mio astuccio rosa e gli presto la mia matita. Gli dico: “Mi raccomando ridammela dopo, l’ultima volta che ti ho dato la matita poi non me l’hai più data, ci tengo” Insisto. Forse un po’ troppo, mi dice: “Pressoré, me lo dice un’altra volta e questa matita non la vede mai più”. Capisco e mi azzittisco.

A fine lezione mi ridà la matita, suona la campanella ed escono.

Sulla lavagna c’è scritto: “We love the English Teacher.”