Ed ecco come passo il tempo io

Qualche giorno fa, la mia cara amica, quella tedesca dentro, quella perfetta e invincibile nel mondo del lavoro e sciattissima e pasticciona nel mondo della vita quotidiana, quella con cui intraprendo sedute saltuarie e salutari di apnea da chiacchiera compulsiva, quella che nella mia visione appannata del mondo si trova nell’olimpo del rendimento accademico – lei – mi ha chiesto se per caso le potevo leggere la sua tesi di dottorato, in vista della consegna definitiva, a breve. Onorata di cotanta fiducia e  gongolandomi nel ruolo dell’accademica che corregge una tesi di dottorato, le ho detto subito di sì, manda pure il file via email.

Mi manda il file. Le rispondo dopo pochi secondi: “ti sei sbagliata, mi hai mandato solo un capitolo, manda tutta la tesi!” Mi risponde: “E’ quella tutta la tesi. Ti mando anche l’indice.” Interdetta do’ una scorsa veloce alla tesi: 156 pagine, Times New Roman, carattere 14. Strabuzzo gli occhi. 14?! Poi comincio a leggerla: snella, veloce, sintetica. La prof. la vuole così, breve, mi ha detto la mia amica.

Allora ho pensato alla mia tesi, il mostro deforme che sta prendendo vita tra le mie mani. Non so per quale arcano mistero, ho deciso che una tesi di dottorato deve avere almeno 300 pagine. La mia tesi le supererà di gran lunga, se continuo così, nonostante, giusto per il fatto che mi voglio particolarmente male e ho poco tempo, ho anche scelto un carattere molto piccolo, Garamond. Se per esempio, nella mia tesi, viene citata la parola intertestualità, ecco che parte il capitolo 5.4.6.3.2 che si intitola: “intertestualità, dalle origini oggi” e fa un excursus semi completo di che cos’è e chi ha scritto dell’intertestualità. Ma siccome dell’intertestualità hanno parlato Saussure, Roland Barthes, Bakhtin, ecco che partono in fila tre bei capitoli su questi tre autori, vita opere e pensiero, che già da soli riempirebbero ben più di dieci tesi di dottorato. Ma siccome Barthes, per dire, era anche un semiologo come Umberto Eco… che faccio, non ci metto un capitolo su Umberto Eco? Ecco subito un bel capitolo su Eco, e così all’infinito, in una specie di Sei Gradi della morte!!

Ed ecco come passo il tempo io.

spedizione autopunitiva con picchi di acuto benessere

Ammirate la costanza, la tenacia, la perseveranza della piccola dottoranda in stato di ansiosa sollecitudine. In preda al timore di non riuscire ad accordare gli attuali equilibri sonno-veglia con l’impellenza dell’arte della scrittura, la piccola dottoranda ha attuato un piano invincibile, vincente, direi quasi al limite del masochismo: ha chiamato l’amica tedesca, l’amica carrarmato, l’amica qui-c’è-da-studiare-non-perdiamo-tempo! L’amica dal ritmo fagocitante le ha dato appuntamento alla stazione termini alle ore nove e zero dieci, e qui non c’è borocillina, non c’è insonnia, non c’è moccichino che tenga: notate l’audacia! La piccola dottoranda smarrita ma determinata e la sua compagna germanista dalle mille risorse sono andate in una biblioteca comunale vicino piazza venezia, la rispoli. Ovviamente le due hanno ripreso il filo del discorso esattamente dove l’avevano lasciato in Germania: ore di studio matto e disperatissimo alternato a chiacchierate forsennate di altrettanta lunghezza. Si sono concesse la pizza al forno di Campo de’ Fiori e il caffè da Sant’Eustachio, le piccole soddisfazioni della capitale, e se qualche poveraccio di Roma in cerca di informazioni sulla tisi è capitato qui per sbaglio, potrà senz’altro apprezzare la qualità della scelta. Certo le ore post-prandiali sono state un tantino drammatiche, con la testa che cadeva sul computer e il caldo che ronzava nelle orecchie, e la tosse che disturbava tutti, però è stata un’esperienza bellissima che spero di ripetere dom..lun… la pross settim…fra due settim… il mese prossimo! O insomma, almeno a tosse passata e ciclo sonno-veglia ristabilito a normalità.

Il fatto è che studiare a casa ha i suoi lati positivi. Prendete ora, che non sto studiando, ma sono al computer. Sono in pigiama con le gambe accavallate a mo’ di yoga, che alla rispoli non è che potrei proprio stare così, c’è la musichina di sottofondo, accanto a me c’è un bicchiere di birra, e un piattino con delle tartine con la salsa di olive e la salsa di funghi, e  scusate, ma ora devo tornare in cucina a riempire sia il bicchiere che il piattino.

Incontri e occasioni perdute

Stamattina sono andata al dipartimento di Soziologie a consultare alcuni libri. Me li sono tenuti alla fine perché erano gli ultimi della lista e questi due giorni di lavoro prima di partire li voglio dedicare a leggere alcuni articoli. Ho chiesto informazioni al bibliotecario della sezioni USA BIBL, un signore con dei grossi occhiali da vista e una maglietta bianca sui cui c’era scritto: ‘Jews who love Jesus’. Mi ha mostrato dove si trovavano i libri sull’Irlanda. Ho fatto delle fotocopie. Poi mi ha portato allo scaffale in cui si trovavano dei testi su Jewish Cultural Studies che mi servivano. Mi ha chiesto: ah ma allora ti interessi di ebraismo? Gli ho risposto di sì. Mi ha sorriso, mi ha mostrato la maglietta. ‘Sì ma non sono ebrea’. Gli ho spiegato in breve l’argomento della tesi. Era interessato, mi ha offerto il suo aiuto per la ricerca bibliografica. Parlava a voce alta, gli studenti seduti ai tavoli hanno fatto: shhhh.

Gli ho chiesto di dov’era. Mi ha detto “Sono tedesco. I miei hanno avuto qualche problema una settantina di anni fa, ma sono sopravissuti, mio padre era tedesco e mia madre era austriaca, e a un certo punto ho dovuto decidere se prendere la cittadinanza tedesca o austriaca. Ho scelto di rimanere in Germania”. E ha fatto una risatina ironica. Si vedeva che aveva voglia di
chiacchierare, anche se evitava in tutti i modi di guardarmi negli occhi.

Vedete, ho finito di leggere Jean Améry da pochi giorni, la scelta della patria, l’identità, la memoria sono cose di cui leggo tutti i giorni. Sulla pagina. Non mi capita poi di ascoltarle davvero da un bibliotecario incontrato per caso.Lo scrivo qui perché voglio ricordarmelo.

Avrei voluto molto chiedergli altre cose, o per lo meno ascoltare ciò che aveva da dire, prolungare la conoscenza di qualche minuto, chiedergli aiuto per la bibliografia, non so. E invece sono sempre la solita. Taglio corto. Sono gentile, sorrido, ma non mi sbottono. Non so dare risposte lunghe, non so mettere le persone a loro agio. Mi imbarazzo e metto gli altri in imbarazzo.

Gli ho stretto la mano, gli ho detto il mio nome. Lui mi ha detto il suo. Sono andata a consultare i miei libri.
Quando sono ripassata da lì non c’era più.

Un dolce sottofondo

Sono arrivata in biblioteca verso le dieci, nella piccola saletta di studi postcoloniali dove non c’è mai quasi nessuno. Seduta al grande tavolo c’era una ragazza dei Caraibi, assorta nel suo studio, davanti a sé il computer e una pila di libri sulla letteratura caraibica. Accanto a lei, disposta ordinatamente, una coperta di lana viola, un lenzuolino di lino bianco, e un muretto di libri a mo’ di barriera. Sul lenzuolo disteso sopra il tavolo, ne intravedevo solo i piedini, un neonato di quattro, cinque mesi, che se ne stava buono buono, scalciava e lanciava urletti, e guardava incantato la mamma che studiava.

La giornata è cominciata bene.

Il giusto squilibrio

Mi trovo momentaneamente a soggiornare in una calda cittadina nel mezzo della Germania, attraversando in sandali e maniche corte le stradine fintamente medievali che portano al centro. Prendo l’autobus e vado in biblioteca, una biblioteca grandissima che apre alle otto e chiude a mezzanotte, dove le fotocopie costano 3 centesimi e dove si possono scannerizzare libri interi nella propria chiavetta usb a 1 cent la pagina. E’ il paradiso di noi piccoli  dottorandi sfigati che passiamo le vacanze studiando. Ogni tanto mi arrivano dei messaggi di parenti e amici: Buone Vacanze! mi dicono. Non hanno capito che passare le giornate dentro una biblioteca a studiare, in Germania come in Italia, non è esattamente vacanza.

Che poi voi mi direte, ma tu non eri un’anglista? e in Germania, che ci sei andata a fare? E avete pure ragione, perspicaci come siete. In Germania ci sono andata perché le fotocopie costano meno, e poi fa caldo e la sera si passeggia a maniche corte, e perché i libri, che li prenda in Irlanda, o in Germania, sempre quelli sono.

Io e la mia amica siamo due mostri. Quando ci mettiamo a studiare, non ci ferma nessuno, siamo due carriarmati, due soldati. Io non mi fermo nemmeno a fare pausa, rimango seduta tre, quattro ore allo stesso tavolo, e mi dimentico di tutto. Studio e basta. Poi arriva l’ora del pranzo, e allora ci scateniamo. Parliamo, parliamo parliamo, fitto fitto, pare che non parliamo con qualcuno da dieci anni, pare che dobbiamo raccontarci tutta la vita, e in effetti ce la raccontiamo, ci analizziamo, psicanalizziamo, ci spieghiamo le tesi, i libri che abbiamo letto, le teorie su cui ci basiamo, parliamo di professori, di uomini, di capelli, di cibo. Parliamo senza fermarci un secondo, prendiamo a malapena il respiro, andiamo in apnea. Prendiamo il caffè, ci rimettiamo a studiare.

La sera, poi, è fatta per chiacchierare ancora, senza tregua. E’ molto piacevole. Io, mi sa che durante l’anno parlo troppo poco, poi con la mia amica con cui vado all’estero mi sfogo.

Oggi ho scoperto che i tedeschi mentre studiano si tolgono le scarpe, e poi girano per la biblioteca a piedi nudi, come se nulla fosse. Domani lo faccio anch’io.