Dichiarazione al sé

Mi piaci quando ridi di gusto. Mi piaci quello che scrivi, io non so scrivere bene come te. Mi piaci quando ti fai abbracciare e ti godi tutto il benessere. Mi piace che hai un aspetto spirituale che ti da equilibrio e armonia. Mi piace come ti vesti. Mi piace come ti esprimi con il corpo, che non hai vergogna a mostrarlo alla persona che ti vuole bene e che ti fa stare bene. Mi piaci quando sei stesa sul prato, con la faccia al sole, gli occhi chiusi e il sorriso sulle labbra. Mi piace che ti vengono mille idee e l’entusiasmo di realizzarle, che viaggi a vele spiegate e non hai paura di nulla. Mi piace che sei curiosa, entusiasta di tutto e di buon umore, e che anche quando piangi non sei disperata, solo triste. Mi piace il tuo amore per le piante, che ci parli e le curi, e la gioia che ti danno quando spunta un foglia o addirittura un fiore. Mi piace che te ne vai  a leggere alla pineta, e che ti godi quei momenti in solitudine, perché sono rilassanti e rigeneranti. Mi piace che ami viaggiare, so che lo desideri tantissimo, e sono sicura che questa volta ci riusciamo, faremo un viaggio tutto come dici tu.

Mi spiace che ti tengo in un angolino. Mi sei mancata tanto.

Le parole del pesce

Parlare con una persona che non conosci è come imparare un’altra lingua. Anzi, è come disimparare la tua lingua madre e non avere più una lingua con cui comunicare. Ecco allora che ti inventi espressioni tutte nuove, gesti strani che non hai mai utilizzato, metafore bizzarre, ecco che ti inventi una te tutta nuova che non conosci neppure tu e che non sai nemmeno da dove sia uscita. Parlare con una persona che non conosci è perdere le parole note, è indicibilmente complicato, specialmente per una che le parole le ha già dovute smarrire quando ha imparato una lingua straniera e che già si è dovuta rassegnare a non trovare più la parola giusta in italiano ma avercela pronta in inglese, ad avere dentro sé una lingua spezzettata, fondamentalmente inutile, spesso rimpolpata di frasi fatte e luoghi comuni, forse completa in un intreccio delle due, ma povera e insufficiente senza l’una o senza l’altra. Condizione del resto abbastanza ridicola per una non bilingue. Ed ecco oggi un nuovo inciampo linguistico, un nuovo passo falso nello smarrimento delle parole. Conoscere una persona nuova è perdersi nel vuoto, senza riferimenti linguistici stabili, è come andare all’estero, è come voler imparare a parlare la lingua dei pesci. Farsi crescere un paio di branchie.

Essere una persona senza linguaggio è come essere una persona disabile ed io così mi sento oggi. Muta, comunico con sguardi, mi sbraccio per farti capire e non so nemmeno io cosa voglio mostrarti. Ti guardo afasica.

Sono un pesce, ma estremamente felice.

Scuoletta

Comprensione del testo. III media.
1. Prof. ma in che giorno capita San Francisco?
2. Prof. a questa domanda rispondo letteramente o numeramente?
3. – Prof. cosa vuol dire “became”?
– non dovresti già saperlo?
– e’ il passato di ‘become’?
– brava.
– vuol dire “perché”?
– Ma mi hai appena detto che è un verbo!
– Ah. Allora vuol dire “anche”.

Tento di trovare degli spazi di libertà in questo meccanico avanzare dei giorni

Sono in balcone. Ho trentacinque anni, un paio di occhiali verdi, un pigiama addosso e un cappotto appoggiato sopra perché è novembre e ho appena mangiato, la sera fa un po’ freddo. Sto fumando una sigaretta. Non mi succede mai, perché non le compro. E’ la mia salvezza, se le comprassi, probabilmente fumerei come una ciminiera. Ma questa volta ho una sigaretta in borsa. L’ho scroccata l’altra sera a una persona che nemmeno conosco, a una cena tra persone che ho visto due volte in due anni, ma poi non l’ho fumata più, ed è rimasta nella borsa. Allora la fumo ora che sono a casa, dopo cena, dopo avere steso i panni. Sono in balcone. E’ buio e c’è un gran silenzio. E’ il silenzio di Roma, ovattato da un lontano rumore di macchine che passano. Dal mio balcone vedo altri balconi, altre finestre, altre case. Ma non c’è nessuno fuori. Solo qualche luce natalizia di chi già pensa al natale. Cinque minuti di nulla. Il tempo di una sigaretta. Noto i dettagli, mi fermo. Mi accorgo che non lo faccio mai. Non penso più. Non mi fermo mai. La mia testa è piena di pensieri meccanici, cose da fare, la spesa, il pranzo, le bollette, gli scatoloni. A tesi finita, gli spazi vuoti si sono riempiti di futili attività necessarie correlate a pensieri altrettanto futili. A tesi finita, gli spazi vuoti si sono riempiti di altrettanto vuoto. Un vuoto necessario, il vuoto della sussistenza. Mi accorgo che è possibile riempire gli spazi di sole transazioni economiche. Il cibo, i mobili, gli assorbenti, i vestiti, le scarpe. E così, comprando, uno passa la vita.

Tento di trovare degli spazi di libertà in questo meccanico avanzare dei giorni, tento di sfuggire alla logica della compravendita, ai legacci della casa, alla meccanicità del lavoro. Tento di sfuggirne facendo le cose più in fretta, di più ogni giorno, comprimendole in ritmi serrati, routine rigorose, certa che a un certo punto avrò finito, avrò fatto tutto. Non capita mai. Non finisco mai. Vorrei entrare in casa e pensare, che bella. Non lo è mai. E’ sempre tutto in giro, tutto sporco, tutto in disordine. Penso con angoscia al giorno in cui cambieremo casa, manca poco, forse solo una settimana, nel timore che anche la casa nuova sarà un luogo inospitale, disorganizzato, ingestibile. Così mi sento io.

Cerco spazi, spazi in cui le parole possano ricominciare a fluire, a uscire da me. Pensieri, pensieri che escano dallo schema del devo comprare il latte.

Dove sono caduta?

I libri che leggo

Leggo di tutto, leggo molto, leggo qualunque cosa mi passa sotto mano. Non sono molto selettiva, non passo molto tempo a scegliere Il Libro, e non passo molto tempo nemmeno a cercarLo, Il Libro, quello che mi illuminerà, quello che cambierà la mia vita, quello che capirò tutto. Non sono nemmeno una grande collettrice di edizioni rare, copertine rilegate, pagine di carta pregiata. Leggo i libri che mi passano sotto mano, quelli che stanno nella grande libreria di questa casa, mai aperti, quelli che riesco a scaricare su kindle, quelli inaspettati che trovo in libreria, quelli della biblioteca. Adoro leggere i libri che mi consiglia la gente, anche quando non sono un granché. Se mi consigli un libro, probabilmente lo leggo, lo compro. Non leggo chick literature, leggo pochi italiani e me ne rammarico, cerco di leggere buona letteratura, ma senza grandi pretese. Non leggo Pynchon, per dire. Pynchon mi spaventa, ma non si sa mai. Per esempio, ora sto leggendo The Fang Family e non so nemmeno perchè. L’ho trovato a un Newsagent all’aeroporto di Los Angeles, e avevo letto una recensione, forse, e e l’ho preso. E ieri ho finito Telegraph Avenue, che ho letto perché me l’ha consigliato il mio amico Ipofrigio, e mi è piaciuto tantissimo, ma non mi chiedete perché. Ci devo pensare.

Non ci sono libri però che mi hanno spalancato le porte della comprensione. Non mi aspetto rivelazioni. Forse perché è troppo acuta in me la coscienza che, dopo tutto, sono scritti da persone, e una punta di cinismo, acuitasi ultimamente, mi impedisce di pensare che ci siano persone che possano darmi la chiave per uno stato di coscienza più profondo, più illuminato. Dunque non perdo nemmeno troppo tempo a sottolineare, mandare a memoria interi paragrafi, riportare sul mio quaderno personali i passaggi che più mi hanno commosso. Questa era una cosa che ho fatto durante tutti gli anni dell’adolescenza, quando ero convinta che in un libro avrei trovato la verità, e che dovevo assiduamente cercarla. Leggevo libri e libri, e sottolineavo, sottolineavo, scrivevo appunti, dedicavo riflessioni, pensieri. E poi ho smesso. Non cerco più la verità nei libri. Non so se questo è un bene. Non credo di trovarla in un libro, la verità.

E nonostante tutto, i libri, quasi tutti, mi commuovono, direi sempre. Con l’acuirsi del cinismo, paradossalmente, è aumentata la commozione, e sono diventata molto emotiva. Questo, ovviamente non è misura di valutazione del libro. Più piango, e più il libro è bello? Direi proprio di no. La mia emotività è priva di buon gusto. A volte mi può emozionare anche una brutta frase, per la sua innocente banalità, per la sua ingenua piattezza. Più facilmente mi commuove una prosa solenne, torrenziale o sintetica, l’accostamento inaspettato di aggettivi inusuali, il mescolamento azzardato di metafore. Mi commuove la descrizione di un prato, di un papavero, di un tramonto. Mi commuove la realtà più ordinaria resa con il linguaggio difficile della filosofia, della matematica, della chimica. Quando incontro una frase così bella, la leggo e la rileggo. Ma poi mi dimentico. Non ritengo quasi nulla, se non la sensazione della bellezza. Cerco di ricordare, poi dimentico.

Altre volte mi commuovo nel seguire la trama di un romanzo. Anche questo non corrisponde sempre al valore del libro.  Spesso è semplicemente perché parla alla mia esperienza personale, ai miei desideri, ai miei rimpianti. Mi identifico quasi sempre, e non sempre è un bene. Altre volte mi lascio trasportare dai grandi amori, dalle guerre, dalle lontananze, dalle perdite. Dal senso di grandezza che traspare in Guerra e Pace, Anna Karenina,  American Pastoral, Middlemarch o The God of Small Things. A volte i libri mi chiamano. Li trovo nei luoghi più disparati e in situazioni diverse, li incontro in libreria, a casa di amici e sulla metro, si presentano a me insistentemente, come a dirmi, leggimi.  To Kill a Mockingbird o The Bell Jar, li ho trovati così.

Sento che ho perduto qualcosa ultimamente. Ma non so bene cosa, e non credo di ritrovarlo nei libri.

Scruffy, appunto

Oggi in terza media, mentre spiegavo il discorso indiretto, c’era uno studente, il solito,  che disegnava. L’ho rimproverato, gli ho detto: ma tu non fai parte di questa classe? Mi ha risposto: ‘Prof. due sono le alternative: o disturbo o disegno. Allora sarà più contenta se disegno.” La sua logica non fa una piega.

Poi ho spiegato il significato della parola ‘scruffy‘.

“Vedete ragazzi, ‘scruffy’ significa ‘sciatto’, ‘trasandato’. Avete presente quelle persone che si vestono un po’ così, con i jeans strappati, i bordi delle maniche un po’ scucite, i maglioni vecchi, magari un buco sotto l’ascella? Ecco, in quel caso si può dire scruffy di una persona”.

Poi mi sono guardata. Avevo i jeans totalmente strappati in fondo, e anche un po’ sporchi di fango, maglietta e giacchino totalmente sgualciti, le maniche tutte scucite e, per completare l’opera, una bella macchia di caffè sul davanti.

Scruffy, appunto.

Seconda puntata

La conferenza su Joyce prosegue oggi, tutto il giorno. Mi sveglio alle 730, dedico un’ora della mia vita a sistemare una delle tre stanze sottoposte a devastazione da quando piove nel salone (attenzione, ora si chiama salone, non più camera da letto!), ora ne manca solo una. Alle 915 esco di casa, in borsetta il kindle, dentro il quale conto di tuffarmi immergermi fondermi qualora qualcuno faccia l’errore di notarmi, e un libro con le avvertenze generali da studiare per il concorso, sì il concorso, quella truffa di cui già vi parlai. Prendo la metro, circa quarantacinque minuti di metro, arrivo a roma3, prendo il caffè, faccio le scale, entro nella sala. E’ buio, devono appena aver mostrato un filmato. Si parla di Caino, riconosco che è il primo intervento della lunga, lunga serie di paper che mi porterà dritta dritta fino a sera. Prendo un foglietto, mi siedo in fondo, mi tolgo il cappello, mi tolgo la sciarpa, mi tolgo il cappotto, incrocio le gambe.

Passano circa 70 secondi.

Ripiego il foglietto, rimetto il cappello, rimetto la sciarpa, rimetto il cappotto, districo le gambe. Mi alzo.

Esco.

Un impeto di esaltazione ed ebbrezza mi assale, ho voglia di mandare tutto il mondo a quel paese, mi sento fiera ed eccitata: Joyce, vaffanculo!!! Vado in libreria, mi compro un libro, comincia a diluviare, mi infradicio i vestiti. Riprendo la metro, torno a casa.

C’è il sole, la stanzetta con la mia piccola scrivania mi accoglie. Mi rimetto a studiare.

Incontri e occasioni perdute

Stamattina sono andata al dipartimento di Soziologie a consultare alcuni libri. Me li sono tenuti alla fine perché erano gli ultimi della lista e questi due giorni di lavoro prima di partire li voglio dedicare a leggere alcuni articoli. Ho chiesto informazioni al bibliotecario della sezioni USA BIBL, un signore con dei grossi occhiali da vista e una maglietta bianca sui cui c’era scritto: ‘Jews who love Jesus’. Mi ha mostrato dove si trovavano i libri sull’Irlanda. Ho fatto delle fotocopie. Poi mi ha portato allo scaffale in cui si trovavano dei testi su Jewish Cultural Studies che mi servivano. Mi ha chiesto: ah ma allora ti interessi di ebraismo? Gli ho risposto di sì. Mi ha sorriso, mi ha mostrato la maglietta. ‘Sì ma non sono ebrea’. Gli ho spiegato in breve l’argomento della tesi. Era interessato, mi ha offerto il suo aiuto per la ricerca bibliografica. Parlava a voce alta, gli studenti seduti ai tavoli hanno fatto: shhhh.

Gli ho chiesto di dov’era. Mi ha detto “Sono tedesco. I miei hanno avuto qualche problema una settantina di anni fa, ma sono sopravissuti, mio padre era tedesco e mia madre era austriaca, e a un certo punto ho dovuto decidere se prendere la cittadinanza tedesca o austriaca. Ho scelto di rimanere in Germania”. E ha fatto una risatina ironica. Si vedeva che aveva voglia di
chiacchierare, anche se evitava in tutti i modi di guardarmi negli occhi.

Vedete, ho finito di leggere Jean Améry da pochi giorni, la scelta della patria, l’identità, la memoria sono cose di cui leggo tutti i giorni. Sulla pagina. Non mi capita poi di ascoltarle davvero da un bibliotecario incontrato per caso.Lo scrivo qui perché voglio ricordarmelo.

Avrei voluto molto chiedergli altre cose, o per lo meno ascoltare ciò che aveva da dire, prolungare la conoscenza di qualche minuto, chiedergli aiuto per la bibliografia, non so. E invece sono sempre la solita. Taglio corto. Sono gentile, sorrido, ma non mi sbottono. Non so dare risposte lunghe, non so mettere le persone a loro agio. Mi imbarazzo e metto gli altri in imbarazzo.

Gli ho stretto la mano, gli ho detto il mio nome. Lui mi ha detto il suo. Sono andata a consultare i miei libri.
Quando sono ripassata da lì non c’era più.

Bibi

E’ una giornata uggiosa e monotona, grigia e piovosa.  Mi attende questa sera una cena familiare, con tutti i miei sette parenti riuniti  attorno all’antico tavolo dove un tempo si sedeva mia nonna a capotavola con la sua zazzera arancione e con le sue battute piccanti e poco consone alla sua veneranda età.

Non è passato molto tempo in questa famiglia da quando lo scatto generazionale ha prodotto in poco tempo quattro, no cinque, facciamo sette se consideriamo le ramificazioni da famiglia allargata, sette marmocchi dagli occhi grandi e le mani paffute, quasi tutti con lo stesso nome. Dovete sapere che nella mia famiglia si utilizzano quasi esclusivamente due nomi. Uno è il nome di mio padre, mio nipote, il primo marito di mia zia, il secondo marito di mia zia, il nipote del secondo marito di mia zia, e la lista potrebbe andare ancora avanti. L’altro nome è il mio, e anch’esso si tramanda di generazione in generazione.

Ma fino a pochissimo tempo fa, la piccola della casa, la pupa, per così dire ero io. E il mio nome, quell’inflazionatissimo nome di cui vi dicevo, nei primi anni della mia vita, non è stato mai usato. In casa, fin dalla nascita, io ero Bibi. Bibi, la piccola. Bibi, è piccola lei. Bibi, non la sgridate, che è piccola.

A cinque anni, forte della mia età e dei miei capricci, nella casa dei miei nonni, dove si passavano le vacanze e che ora non c’è più, non come la ricordo per lo meno, ho portato in casa la prima rivoluzione: io non sono Bibi. Io sono grande. Non sarebbe stata l’ultima. Mi sono buttata a letto a strillare e scalciare e agitarmi, piangendo lacrime, chissà, forse vere. Io sono grande, io non mi chiamo Bibi. Dopo due ore, hanno capitolato. Andando a cena con fare maestoso e ‘da grande’, nonni, genitori e cugini mi guardavano con aria intimorita e riverente. Non è più Bibi, è grande. Mi circondava un’aura di regale grandezza, di nuovo battesimo. Se per dirmi: su mangia, si sbagliavano e dicevano su, mangia Bibi, si mordevano le labbra, correggendosi subito. Ah no, non Bibi, è grande lei.

Dopo un po’, smisero di chiamarmi Bibi del tutto, non si sbagliavano più. Per un certo tempo, ho rimpianto questo soprannome, essere piccoli a volte fa comodo. Andò a finire nel dimenticatoio e ne  rimane traccia solo come scritta dietro alcune vecchissime foto in cui sorrido in un passeggino con dei sassolini in mano.

Ho conquistato il mio nome con le unghie e con i denti, come del resto tutto ciò che oggi mi appartiene.