Oggi ho preso l’autobus per andare a Venezia. Accanto a me si è seduto un vecchietto slavato, con gli anelli alle dita, braccialetti etnici ai polsi, collana d’oro. Capelli semilunghi biondicci, un po’ curvo, anziano. Odor stantio di tabacco ad uso prolungato. Dopo pochi secondi mi chiede.
– Signorina la me scusa, signorina. Lei va a Venezia?
– Sì.
– La va per studio o per lavoro?
– Per studio.
– Ah per studio.
– …
Giro la testa verso il finestrino, sperando di non dover passare un’ora così.
Passano pochi minuti.
– Signorina, la me scusa.
– Sì.
– Ma a ela gli uomini ghe piaze….
Che peccato averlo interrotto, chissà come sarebbe finita la frase: Ma a lei gli uomini le piacciono giovani o vecchi? Le piacciono con i calli sulle mani o sui piedi? Con la dentiera o con la gobba?…
Non so da dove sia comparsa la mia voce di gelo, nonostante il caldo torrido di questi giorni. L’ho sfiammato, l’ho congestionato, l’ho tramortito: “No, senta se dobbiamo fare tutta la strada così io mi sposto, mi faccia passare”.

– Signorina, la me scusa, la me permette di scusarmi, non la disturbo più, mi permette?”
– Sì ecco, si scusi (non ho detto la scuso, ho detto si scusi! incredibile….ero io?) e non mi disturbi più.
Più nulla, agitato e silenzioso, dopo pochi secondi è passato alla preda femminila davanti a me: “Signorina la me scusa, mi fa sedere accanto a lei?” La poverina si è alzata per farlo accomodare, mentre io le facevo cenno di venire a sedersi accanto a me.
Il vecchietto è sceso dall’autobus poche fermate più tardi al suono di: Buon Lavoro autista!
Peccato non poter riprodurre qui l’accento della campagna veneta, sarebbe tutto molto più realistico. Se c’è una cosa che non ho mai imparato nella mia vita è il dialetto.

traslochi

Nei miei vari peregrinare da una casa all’altra, a volte sono costretta a lasciare dei pezzi dietro di me. Lascio degli oggetti, come piccoli pezzi che si distaccano al momento del partire. Come piccoli satelliti dell’anima che proseguono l’orbita di quell’esistenza che io mi appresto a lasciare. Alcune case dove ho vissuto sono state la prosecuzione fisica della mia anima. Il prolungamento naturale, esterno.
C’era un legame silenzioso e indissolubile tra me e la casa di Dublino. Sapeva tutto di me. I pensieri si spiaccicavano sui vetri della finestra, appannandola di fumi dubbiosi, rimbalzavano sui muri del salotto, impregnandoli di umori più tristi che gai, entravano nelle lenzuola, sotto il piumone che faticava a scaldarsi, e ne intessevano la trama, di quelle lenzuola, del piumone, dei muri, dei vetri. Ci sbattevo la testa, sui muri di quella casa. Rimanevo in silenzio al buio, seduta sulla poltroncina blu di quella casa. Il caminetto spento davanti a me. Accendevo le candele. C’erano sempre i fiori sul tavolo di legno. Tutta la casa ero io. L’avevo sentito nel momento in cui ero entrata la prima volta dalla porta rossa dell’ingresso, me ne ero orgogliosamente convinta e lo affermavo risoluta: questa casa sono io. Rimane qui quando me ne vado. Rimane, io rimango. In quella casa io mi ero espansa così tanto da ricoprire ogni centimetro quadro dello spazio disponibile. Per questo vivevo da sola. Non c’era spazio per nessun altro. Quando me ne sono andata, oltre a lasciare vari fantasmi di me, e vari pensieri che ancora appannano i vetri delle finestre, sono rimasti anche due piumoni, due cuscini, un set di lenzuola, pentole, piatti, forchette, tazze e una lampada che avevo dipinto e mi piaceva molto, ma che poi ho deciso di lasciare come una sorta di  benvenuto per il prossimo inquilino.

La casa bella che ho abitato qui a Roma (che ho lasciato a febbraio) invece l’ho condivisa. Con un pianoforte. Un grosso, ingombrante vecchio pianoforte verticale appartenente alla mia nonna, che mi sono portata appresso come se fosse stato uno zainetto dell’invicta. Ci siamo trovati bene in questa casa di trentotto metri quadri, dovevamo dividerci lo spazio, lui ne occupava più di me. A suonarlo bisognava metterlo in sordina, scordato com’era, eppure così prepotente nelle sue note a volume altissimo che svegliavano tutto il condominio. E le sue note scordate e la mia maldestria non erano un buon binomio. Non lo suonavo spesso, quasi mai. Tendo a voler essere silenziosa, e lui era troppo rumoroso. Ingombrante e rumoroso. Il mio pianoforte in quella casetta lillipuziana. Anche lui è indietreggiato. Quando mi sono trasferita è rimasto lì, solo, a mangiarsi tutto lo spazio.
Ora lo devo sgombrare. Se ne va anche lui. Dove sto ora non lo posso tenere. Lo do via. Lo mando via. Lo regalo, perché il pianoforte della tua nonna non si può vendere. Vuol dire che l’orbita di quella casa lì si è conclusa definitivamente. È l’ultimo pezzettino di me, alquanto ingombrante d’altronde, che si separa definitivamente dal suo spazio esterno naturale, e da me.