plin plin

Mercoledì verso le quattro di mattina, un non ben identificato plin plin mi sveglia. Niente paura, si tratta solo del rumore di una gocciolina, che costante e sicura di sé, cade sulla tastiera del mio computer. Certo, dove altro poteva farsi strada la coraggiosa gocciolina? Guadagnando forza e determinazione, la gocciolina si è trasformata in una pittoresca pioggia dentro la camera da letto. E’ stato bellissimo, sembrava di dormire all’aperto. E’ venuto il muratore, sì lui, il poeta con la erre moscia. Ha detto con il suo accento dolcemente est europeo: ” Qui combattiamo con i mulini a vento, anzi no, solo con i mulini, perché di vento non ce n’è” e si è messo a scalpellare il soffitto provocando un buco grosso come un tombino. Ma questo muratore non fa altro che farmi buchi dentro la casa! Mi Rrraccomando metti un secchio, mi ha detto. E se n’è andato. Metti un secchio. Già. E ricordati di svuotarlo due volte al giorno. Non risolveranno il problema a breve, pare che il terrazzo sopra di noi sia da rifare da cima a fondo.

Considerando che in cucina e in cameretta ha piovuto fino all’altro ieri, che la stanza che, vi ricordate, volevo pitturare è rimasta con i mobili spostati ed in uno stato di generale e pietosa devastazione, e che ora c’è un buco sul soffitto di camera da letto, mi è sembrato che forse sarei riuscita a non sentirmi in colpa se avessi chiamato il proprietario per dirgli che abbiamo finito le stanze a disposizione e, cercando di non passare dalla modalità ‘gentilezza servile’ alla modalità ‘isterico-esasperata’ che mi contraddistinguono senza soluzione di continuità, ho pensato bene che la cosa migliore sarebbe stato di minacciarlo.  Detto fatto, ha funzionato! Domani altri muratori, con una minore verve poetica temo, verranno a sistemare la stanza pietosa. Il buco invece non troverà soluzione per ora, mi hanno consigliato di metterci un cartoncino con lo scotch perché non si veda. Se avete soluzioni migliori, proposte sono ben accette.

Piccoli momenti di gloria

Innanzitutto voglio condividere la soddisfazione del fatto che vi sto scrivendo dal treno che mi sta riportando a Roma, nonostante l’ironia di aver scoperto come collegarmi su internet in treno l’ultimo giorno in cui  prenderò il treno, visto che a Venezia ho sostanzialmente finito di andarci.

Poi, intendo condividere con voi anche che, nonostante sia una fase della mia vita in cui a fatica riesco a leggere un libro la sera, preferendo spesso un sudoku o un film; nonostante, inaspettatamente, mi ritrovi a trascorrere tre ore settimanali della mia vita in palestra, e del tempo, sempre eccedente ogni aspettativa, udite udite, in negozi di cosmetica dove acquisto a seconda dell’umore rossetti più o meno rossi, matite per gli occhi, primer e ombretti, e che altrettanto tempo io l’abbia trascorso su youtube a seguire i tutorial di Clio per imparare come applicare codesti trucchi, che per me hanno sempre rappresentato un mondo sconosciuto e misterioso; ecco dicevo, nonostante questa fase di apparente rimbecillimento (addirittura più del consueto) io oggi 14 dicembre, ad una bellissima lezione su La Banalità Del Male sia finalmente riuscita a porre LaDomanda!!! Ma aspettate!  non si è trattato solo di porre una domanda, con il fare timidino insicuro che voi oramai conoscete bene…. Ah no! dovete immaginarmi seduta in prima fila, con una gambetta accavallata sull’altra, lo sguardo acuto e la penna in mano lievemente sollevata, dovete immaginarmi con le spalle alla Lili Gruber che a un certo punto alzo la mano facendo non una domanda… ah no! Ebbene, io intervengo! non domando, intervengo! Noooo, non ci credete. Neanch’io. Intervengo interrompendo la domanda di una prof. spettatrice, dicendo, udite udite: “posso aggiungere qualcosa a questo riguardo?” per poi partire con il mio intervento (lasciatemelo chiamare intervento, sapete che la gloria dura ben poco) a cui la prof. relatrice ha commentato dicendo “più che giusto”. Insomma, sarà che sono stata minacciata con ricatti psicologici non da poco, sarà stato il meccanico in officina a spiazzarmi con i suoi paradossi (“più vuoi fare bella figura, meno ti prepari e più rischi di fare la parte dell’ebete”), sarà stato che il colloquio col mio tutor stamattina sulla tesi è stato molto piacevole e positivo, ma oggi sento di potermi permettere un po’ di soddisfazione.

Infine volevo avvertirvi che, visto che sono un po’ di mesi che vi lascio stare, non vi tormento con la questione del dottorato e delle mie performance più o meno idiote (tranne oggi), ho pensato bene, per ravvivare questo blog, di mettermi in contatto con l’altro scrittore, quello irlandese, per chiedergli un’intervista, il mio forte. La mia speranza di poter risolvere con una intervista via email è miseramente fallita subito. Lo scrittore mi invita a Dublino.

Bene, avremo di cui parlarci nei prossimi mesi.

Il ricettacolo della massaia impazzita e del tisico angosciato

Capitano su questo blog sconosciuti di solito all’apice della disperazione e alla ricerca di malattie oscure e angosciose, di solito digitando tisi/tisico/sono tisico, ma anche alla ricerca di incubi inconfessabili di insetti, fantasmi e mostri notturni; altre volte però l’ossessione che coglie inaspettata i visitatori di questo blog è quella della massaia, delle pulizie, della casalinga impazzita. Ecco allora che a capitare qui sono visitatori anonimi che cercano: “come si chiama il panno che si mette in testa per portare bagnarole”, oppure “come si chiama la bagnarola dei panni”.

Io non lo so come si chiama la bagnarola dei panni, non so nemmeno cos’è. Qualcuno lo sa?

O tu Blogger (petizione) e muratore poeta

O tu blogger che ogni tanto passi di qui, grazie!
O tu blogger che ogn tanto passi di qui e che ti chiami 403, grazie!
Sì perchè se non era per 403 io mica lo sapevo che siamo a rischio chiusura blog e se non era per 403 che ci avvertiva nel commento al post precedente, io mica mi accorgevo e perdevo tutto perdevo.
Allora dovete sapere che io oggi dovevo studiare tutto ma tutto il giorno, perchè il giovedì non devo andare a scuola e oggi non ho preso il treno, allora studiavo. Ma ora no. Ora io mi sono salvata tutto il blog su Word, perchè sono antica, e ancora non l’ho capito come si fa a trasportarsi il blog su un’altra piattaforma, blogspot o word press, ora vediamo. Ora 403 ci spiega tutto
O tu blogger che passi di qui e ogni tanto commenti! Tu dove vai? Blogspot o WordPress?
Io vengo con te.
Non lasciatemi sola.
Comunque sono venute 94 paginette di Word, con commenti e tutto quanto. Non ce ne sono proprio tanti di commenti, eh, perchè questo è un blog senza pubblicità,  però quelli che ci sono sono tutti belli. tranne quello dell’anonimo che mi ha detto di scrivere il mio numero su bagno dell’autogrill. Quello non l’ho capito. Però gli altri sì.

Poi volevo anche dirvi che oggi è venuto il muratore. Aveva la eRRe moscia e ha detto: sono disoRRientato. Poi ha detto: questa casa è proprio un cesso. Però non ce l’aveva con me che avevo messo tutto in ordine e fatto le pulizie perchè sapevo che veniva. Ce l’aveva con il proprietario della casa, che lo sapete no che questa casa dove abito sta un po’ così, agonizzante, con il sistema elettrico traballante e gli spifferi alle finestre e i muri che trasudano acqua e gocciolano quando piove. Ed è per questo che è venuto il muratore infatti. E ha fatto un bel buco sul muro. Poi l’ha richiuso con la malta scura. Scommetto che ora rimane così per un paio di anni. E insomma, è per questo che lui dice questa casa è un cesso. Ha ragione.
Però io mi chiedevo: ma quando viene il muratore, uno cosa fa? lo guarda lavorare così, rimanendo in piedi in silenzio a guardarlo come una specie di voyeur? oppure se ne disinteressa completamente e si fa gli affari suoi? oppure si mette gli occhialetti e fa le domande intelligenti (questa è malta o stucco? perchè l’acqua goccia? mi insegna?)?

O tu Blogger

O tu Blogger,
che ti ho commentato un paio di volte all'inizio dell'anno e che c'hai i baffetti e la barbuzza e che hai un titolo che dentro forse c'è la parola "pensieri", io non me lo ricordo come ti chiamavi e neanche il titolo esatto del tuo blog, che però era simpatico e volevo ricapitarci su..
O tu Bloogger,
se passi di qui e capisci che sto parlando di te, sì, tu proprio tu, palesati!

di officine, bastonicini findus, uomini senza faccia, e cinemi

laughing to keep from crying

Qualche tempo fa, ritrovandomi alquanto depressa e scoraggiata, e le pasticche per l’autostima il supradyn e i bastoncini findus non avendo alcun effetto sul mio umore, ho pensato di recarmi all’Irish Film Festa, unico festival italiano sul cinema irlandese, a darmi arie di cultura e intelligenza, mossa dal principio che, se l’appetito vien mangiando, l’autostima, quella cosa sconosciuta di cui mi hanno parlato, dovrebbe venire facendo le cose che ti piacciono e che ti fanno stare bene. Attenzione però, o tu blogger che non sai i fatti di psicologia, attento a scegliere bene la tua attività che ti salverà dalla lacrimuccia facile, non ti cimentare nel bungy jumping se soffri di vertigini, non iscriverti a un corso di scrittura creativa se hai sempre preso cinque al tema di italiano, non darti al karaoke se sei stonato…deve essere una cosa che insomma sai fare già più o meno bene e ti faccia distrarre. Questi fatti di psicologia si possono sapere non solo frequentando l’officina per un tempo imprecisato, ma anche frequentando il corso di psicopedagogia a quella famigerata scuola per diventare insegnanti che è la ssis, che però voi se volete frequentarla, vi dico subito che ora è troppo tardi, l’hanno chiusa. Però se l’avevate frequentata prima di fare i vostri anni imprecisati di officina, queste cose le sapevate di già e vi risparmiavate un po’ di denari. Che poi il problema, sapevatelo, non è di saperle ma di metterle in pratica, perché, sapete, tanto e tanto tempo fa, per un certo periodo, prima di andare in un’officina seria, io mi leggevo i libri di vittorio albisetti, sì avete capito bene, ahimè, vittorio albisetti, che la mia coinquilina ce li aveva quasi tutti e ce li leggevamo insieme e ci dicevamo o com’è bravo lui ha capito tutto, o come ne sa lui di donne nessuno mai o come mi descrive bene sono proprio io, però il problema dei libri di vittorio albisetti era che ti spiegava benissimo come stavi e perché e che probabilmente era perché da piccolo eri caduto e tua madre non ti aveva raccolto subito ma dopo due secondi, e tu ti sei sentito abbandonato, oppure che tua madre ti dava l’olio di fegato di merluzzo perché, povera figlia mia, eri piccola e racchia e ti ci volevano le proteine per crescere ma a te l’olio di fegato di merluzzo ti faceva schifo e ancora non l’hai superata questa cosa di quanto schifo ti faceva, e allora te che non c’hai altro da fare nella vita allora hai deciso di rovinartela tutta quanta per questo motivo qui: e allora è per questo che ti leggi vittorio albisetti e ti senti molto capita e compresa. Ma, dicevo, il problema è che vittorio non ti dice con tutta questa robbba che ci devi fare, cioè dopo che ti ha fatto la sua bella diagnosi e ti ha fatto sentire tanto amata, il libro finisce. Punto, ciao. Comprati anche quell’altro libro.

Come quell’altra signora che non ho mai capito se era una psicologa o una maestrina in pensione che non sapeva come passare il tempo e che insomma mi ascoltava, qualche annetto fa, in un consultorio di volontari che io ci andavo perché appunto non si pagava, ma poi mi è rimasto il dubbio del grado di professionalità di suddetta officina, che ogni volta che mi pareva di dire qualcosa di sensato e mi pareva che stavo raggiungendo l’illuminazione e le dicevo: e insomma allora che devo fare in questo caso? Cioè, è arrivato il momento topico della risposta ai miei problemi: come agire? Ho capito cos’ho, mo che faccio? E lei mi rispondeva con un flemma che volevo tirarle addosso la poltroncina: “ehhhhhh bisogna lavorarci, bisogna lavorarci molto”. Allora te capisci che sapere qual è il problema non ti serve a niente, ti ci vuole anche di risolverlo. Allora se hai tempo e denaro, soprattutto denaro, vai in un’officina, dove ti danno quattro martellate in testa, però alla fine, molto molto alla fine, loro ti riparano e tu stai meglio, anche se c’hai il portafoglio molto più sgonfio.

Comunque tutto sto discorso era solo per dire che l’altra settimana ero andata al festival del cinema irlandese che era alla casa del cinema a villa borghese a darmi arie di coltura e intelligentsia, che pure il taccuino spocchioso per prendere appunti mi ero portata. E pure la mia amica, quella che ancora mi pensa credibile, mi sono portata, per sentirmi un po’ così, una di quelle che vanno alle rassegne cinematografiche, e ne sanno e hanno sempre quell’abbigliamento alla film di Bertolucci, con la sciarpa colorata, e il cappotto di lana cotta e i capelli scarmigliati ma bellissimi. E durante la conferenza, ragazzi se ho preso appunti! Mi sono scritta tutto, però la domanda non l’ho fatta, mo non esageriamo, che voi già lo sapete che io e prendere la parola in pubblico, non andiamo molto d’accordo, non andiamo d’accordo per niente. E quindi niente domanda. 

Però durante la conferenza è successa una cosa. È successo che a un punto sono entrati quattro senza tetto. A distanza di pochi secondi l’uno dall’altra, quasi per non dare  nell’occhio, sono entrati e si sono seduti in quattro punti diversi del teatro. Uno poverino è senza faccia. Lo vedo qualche volta nella metro B. Comunque non è importante questa cosa che non ha la faccia. Loro stavano lì un po’ nel loro modo. Cioè, un po’ parlavano da soli, un po’ si guardavano in giro ruttando, un po’ si stendevano sulla poltroncina. Era pittoresco vederli in quel posto lì, a una conferenza poi, che dici, di solito ci vedi i professoroni, gli esperti di cinema, e quelle giù di morale che hanno bisogno di una siringhetta di autostima. Che ci facevano loro lì? Con le guardie appostate ai lati del teatro, poverini, che appena appena facevano una mossa falsa, quelle li arrestavano subito.

Poi, finita la conferenza ho sentito una guardia che diceva a quello senza faccia: Non ci devi venire qui, hai capito, non ci devi venire! E lui, farfugliando, perché forse non ha nemmeno la lingua, diceva: il film, il film quando è il film? E allora ho capito che loro ci erano venuti, perché, vai a capire come, avevano scoperto che alla casa del cinema danno i filmi aggratis e per loro che non ci hanno un quattrino in tasca, nemmeno per andarci al cine, che in effetti tra un po’ non ce li manco io i soldi per andarci, loro ecco volevano vedere un film aggratis, volevano. Che poi, che film volete che diano alla casa del cinema in una rassegna di cine irlandese? Mo, a me magari piace, ma non è che sia proprio il filmone americano super coinvolgente, a volte sono delle mazzate pazzesche. Però per loro è l’occasione di andare al cine!

Peccato che sono capitati alla conferenza su Joyce….

Scrivo poco scusate, l’autocensura mi gioca brutti scherzi.

I’m afraid I have to admit that the Jews have invented guilt some three thousand years ago back in Jerusalem. Then the Christian have spread it all over the world. I have to say that as a Jew I feel very guilty about the invention of guilt by the Jews. Like anyone of us, if I don’t feel guilty for a whole day then in the evening I feel guilty for not feeling guilty for a whole day. 

(Temo di dover ammettere che gli ebrei hanno inventato il senso di colpa circa tremila anni fa a Gerusalemme. Poi i Cristiani l’hanno diffuso in tutto il mondo. Devo dire che in quanto ebreo, mi sento molto in colpa per l’invenzione del senso di colpa da parte degli ebrei. Come ognuno di noi, se non mi sento in colpa per un giorno intero, poi la sera mi sento in colpa per non essermi sentito in colpa per un giorno intero).

Amos Oz, Mantova, 08/IX/2010 

  Me lo spiegate voi da dove viene questa cosa del senso di colpa? Da dove si origina, da dove la scaturigine, come diceva una mia professoressa di scienze una volta, o forse era la professoressa di religione? Che succede dentro alla testa di uno, che un giorno va tutto bene, è tutto tranquillo, non ci sono bombe sulla metro, il lavoro va bene, non ti hanno licenziato, la gente ha sguardi benevoli con te, al supermercato non ti insultano, in autobus trovi sempre un posto dove sederti, gli studenti tutto sommato sono carini, il lavoro che fai, e lo studio, per fortuna ti piacciono. Va tutto bene, insomma. Cosa succede che nonostante tutto vada bene, tu una mattina ti svegli, e sulla testa, nel cuore, nel profondo del tuo respiro, ti cala una cappa asfissiante di senso di colpa? Un’ansietta, un malesserino, un dispregio di te … che è successo nel frattempo in quella notte?

Ieri tutto il mondo ti sorrideva , ti amava, ti osannava con stupendi  complimenti della tua bravura nello  stare al mondo e del tuo portare la bellezza e il sorriso come una luce nell’oscurità del mondo. Ieri entravi in camera e dicevi che bello vivere qui, che belle persone. Che bello amarsi che bella io che bello te belli noi belli voi belli tutti, ieri studiavi e pensavi bello questo libro, volevi scrivere e, che belle cose che scrivo, guardi dalla finestra e subito ti si inteneriva il cuore alla vista del tuo angolo di roma, cucinavi e ti veniva tutto meravigliosamente buono e gustoso e tutti ti amavano per questo, ti vesti la mattina e giù un altro papiro di auto complimenti sul tuo stile originale ed estroso e da come riesci a mettere insieme un abbigliamento non solo decente ma addirittura carino da quei quattro stracci che ti ritrovi (è già oggi, sentite?). Ieri.

Oggi. Che cosa è cambiato, che oggi ti fa tutto schifo? Entri in camera e pensi: che schifo è tutto in disordine. I coinquilini: li odi. Supermercato: che schifo è tutto scaduto, la cassiera: incapace, cucini: fa tutto schifo. Il mondo è uno schifo. La vita, schifo. Io, il nucleo generatore di schifo nel mondo.

È il tempo mi dico, mentre fuori c’è un cielo limpido e sereno e un sole splendente. È il tempo che sta cambiando, per questo mi sento così. Poi in effetti verso sera scoppia un temporale. Ma ormai, nel frattempo, mi sono convinta che è il procedimento inverso che accade, e cioè che la mia ansia e il mio malumore sono diventati così potenti, dopo anni di allenamento, che non è che mi viene il malumore perché cambia il tempo, ma è il tempo che cambia a causa del mio malumore.

Ditemi, da dove viene il senso di colpa? Da dove viene che da un giorno per l’altro tu ti senta responsabile  dei mali della vita, della tristezza, della cattiveria.

Ho mangiato pesante in questi giorni? Non ho fatto abbastanza elemosine per strada? Mi curo troppo solo del mio orticello e non guardo al mio prossimo? Ho dormito troppo poco? Ho dormito troppo? Mi devo lavare i capelli? Devo iscrivermi in piscina?

ps: vi prego di notare e apprezzare l’autoironia nonostante dentro di me oggi non ci sia nessuna voglia di scherzare. È una dote rara al giorno d’oggi. Notatelo, fatelo per me.  

Post in difesa delle gatte morte

Allora premetto anzitutto che anch’io ce l’ho con le gatte morte. Poi, figuratevi, vengo dal nord, ce l’ho presente quelle con le perle alle orecchie e i capelli lisci e mesciati raccolti in una codina ordinata e precisa e la borsa luivitton e i jeans con le paiette con l’orlo perfetto che non struscia sotto la suola delle scarpe e i mocassini di geox, quelle che di ritorno da Londra te le ritrovi dietro di te in aereo con l’ultimo romanzo della Kinsella sotto braccio e le varie sportine di Guess e Valentino e diecimila sacchetti di Harrods che le ammazzeresti con il loro tranquillo: “allora domani ci vediamo con la giuly e la dory e prima passiamo da Dior che devo ritirare l’orologio di papà e poi magari lo spritz da Augusto” etc etc, sì vabeh, lo so che non rende molto, e del resto io le gatte morte non le frequento quindi non lo so veramente come parlano… Anch’io non le sopporto, dicevo, soprattutto la collana di perle, che c’hai venticinque anni perché ti metti la collana di perle, sì è vero che fa molto chic, però c’hai pure venticinque anni, mica ottanta! E odio anche gli orecchini di perle, non perché non mi piacciano ma perché ve li mettete soprattutto voi, gattaccie morte. Ed è soprattutto per questo che nonostante l’inizio non incoraggiante, questo post è in realtà un post in difesa delle gatte morte, e mo vi spiego anche perché.
Perché io ho trascorso anni e anni della mia lunga vita – e non gli anni adolescenziali, credetemi.. no, ero già grandicella – portando i seguenti capi di abbigliamento: blu jeans a zampa d’elefante belli il primo anno, sdruciti il secondo anno, stracciati e sporchi di fango fino al ginocchio dal terzo anno in poi (non importava quanto li lavassi, ormai il fango era parte di sé, del resto sono stati il pezzo forte da me indossato durante i piovosi anni irlandesi); giacca di pelle bucato sotto l’ascella, maglione collo alto smesso dalla sorella maggiore da parecchi anni ma da me medesima considerato come nuovo, eskimo di velluto verde militare con cappuccio, pantaloni di velluto viola, bordeaux, blu elettrico, a seconda, etc. Mi ci sentivo tanto bene, mi ci trovo tuttora bene a vestirmi così (quasi così, i jeans mi sforzo di mantenerli a livello secondo anno…). Sì è vero, mia mamma, tuttora quando mi vede mi dice per piacere non vestirti come una barbona o una stracciona (non guarda nemmeno più cosa io abbia addosso, lo dice di default). Ma, io pensavo allora, la cosa rassicurante è che non rischi di essere considerata una gatta morta, o un bellina niente cervello, o una bambolina di porcellana, come tanti mi soprannominavano. Te mi dici: “sembri proprio una bambolina”? E io mi vesto come un artista di strada. Te pensi che io sia una gatta morta? E io ti faccio vedere che non lo sono. E così via.
Comunque. Fin quando è arrivato il momento, fatidico, di fare anch’io i primi passi verso quel mondo chiamato femminilità! Viva! E credetemi non è stato per niente facile. Ora sto attraversando la fase che provo ogni tanto a mettermi i tacchi. A parte il fatto del male ai piedi, che non sono abituati, poveri piedini, dopo trentun anni a ballerine e Doctor Marteens, il difficile è proprio quello di abituarti all’idea di essere una-che-si-mette-i-tacchi, una donna-che-porta-i-tacchi-(donna?!), è una rivoluzione rispetto all’idea che uno ha di se stesso (ma ci capite nulla voi uomini?). La fase gonna l’ho già passata e ora la porto abbastanza naturalmente, la minigonna…mmmm più complicato, scegliendo con molta cura i luoghi e le situazioni. In ogni caso mai minigonna e tacchi insieme. La minigonna deve essere sdrammatizzata.
Poi da quando lavoro a scuola, le perle alle orecchie, ogni tanto ci stanno bene, perché no? Perché no, mi dico, perché ormai io e me stessa abbiamo assodato che no, non sono una gatta morta….
Perciò, questo è un post in difesa delle gatte morte, per un motivo assolutamente autoreferenziale, com’è tutto questo blog del resto. Perché magari una mi conosce per la prima volta proprio quel giorno che io, raccogliendo tutto il mio coraggio di ragazza-ammazza-femmnilità, indosso, che so, una gonna e le perle alle orecchie, e magari proprio quel giorno non porto una delle mie borse con le pezze e la lana e la tracolla rotta e riannodata e magari ho preso una borsa una di cuoio nero da portare nelle occasioni e tu ragazza alternativa mi vedi e pensi ah ma quella è solo una gatta morta quando non sai o tu ragazza alternativa non sai tutto il percorso-recupera-femminilità che si annoda dietro quel mio abbigliamento di stamattina, dietro quel gesto banale di mettermi le perle alle orecchie, che non hanno niente a che vedere con le perle delle gatte morte, le mie, le mie sono le perle della rinascita, le perle della femminilità ritrovata.
Dunque non chiamiamole più gatte morte, non chiamiamole proprio, non pensiamo eccone un’altra quando sta passando, perché dietro a un paio di perle alle orecchie potrebbe nascondersi una come te.