Le parole del pesce

Parlare con una persona che non conosci è come imparare un’altra lingua. Anzi, è come disimparare la tua lingua madre e non avere più una lingua con cui comunicare. Ecco allora che ti inventi espressioni tutte nuove, gesti strani che non hai mai utilizzato, metafore bizzarre, ecco che ti inventi una te tutta nuova che non conosci neppure tu e che non sai nemmeno da dove sia uscita. Parlare con una persona che non conosci è perdere le parole note, è indicibilmente complicato, specialmente per una che le parole le ha già dovute smarrire quando ha imparato una lingua straniera e che già si è dovuta rassegnare a non trovare più la parola giusta in italiano ma avercela pronta in inglese, ad avere dentro sé una lingua spezzettata, fondamentalmente inutile, spesso rimpolpata di frasi fatte e luoghi comuni, forse completa in un intreccio delle due, ma povera e insufficiente senza l’una o senza l’altra. Condizione del resto abbastanza ridicola per una non bilingue. Ed ecco oggi un nuovo inciampo linguistico, un nuovo passo falso nello smarrimento delle parole. Conoscere una persona nuova è perdersi nel vuoto, senza riferimenti linguistici stabili, è come andare all’estero, è come voler imparare a parlare la lingua dei pesci. Farsi crescere un paio di branchie.

Essere una persona senza linguaggio è come essere una persona disabile ed io così mi sento oggi. Muta, comunico con sguardi, mi sbraccio per farti capire e non so nemmeno io cosa voglio mostrarti. Ti guardo afasica.

Sono un pesce, ma estremamente felice.

A brand new day

Davanti a un giovane notaio con la battuta pronta e disinvolto nella sua più completa onnipotenza, un’ agente di banca gentile ma un po’ pasticciona, tre voluminosi assegni nascosti gelosamente in borsetta; seduti accanto alla giovane coppia di venditori a cui abbiamo praticamente dichiarato il nostro amore eterno e indefesso (“va bene, ci state vendendo la vostra casa, ma a parte questo, volete diventare nostri amici? ci piacete tanto, ci vediamo ancora? e a proposito, non abbiamo soldi per arredarla questa casa, vi prego, lasciateci tutto quello che c’è dentro…”), abbiamo finalmente venduto le nostre anime alla banca, che le custodirà gelosamente per trent’anni concedendoci in cambio la generosa facoltà di alloggiare in questa casa scelta da noi, ma comprata da loro, nella quale vivremo per qualche anno dormendo per terra, cucinando su un fornelletto da campeggio e riscaldandoci al calore delle candele che ci serviranno per illuminarla. A meno che Ikea non abbia pietà di noi e avvii qualche promozione su cucine e camere da letto.

Abbiamo finito tutti i soldi.

Nel giro di un mese dobbiamo fare quel poco di lavori che ci sono, traslocare e trasferirci. Lasciamo questa casetta in cui siamo stati per cinque anni, tra muri gocciolanti, cucine unte e cadenti, letti di quarta mano, mobili degli anni cinquanta e, negli ultimi due mesi, una serranda rotta. Non c’è stato feng shui che tenesse. Eppure, ci mancheranno: le finestre enormi e la tanta tanta luce che ne entrava; il balcone lunghissimo; il senso di libertà della nostra vita senza contratti, senza residenza, senza nomi, senza definizioni precise; i vicini di pianerottolo; la amministratrice logorroica ma simpatica; la palestra davanti casa; la strada silenziosa ma vicinissima a supermercati, negozi, fermate di metro e bus.

Ci allontaniamo un po’ e non avremo l’ascensore. Ci vorrà un po’ per abituarci, come per tutti i cambiamenti, e ci inoltriamo silenziosi in questa dimensione un po’ nuova per noi, dove le cose prendono forma e hanno un nome, dove per realizzare i desideri bisogna faticare molto, dove la felicità ripaga la fatica, dove le cose pur prendendo un nome sono in continuo movimento, e sempre nuove.

Un’estate

Mi sono laureata il 25 ottobre del 2004. L’anno che seguì, non feci granché. Avevo venticinque anni. Ero libera, il mondo e la vita davanti a me, nient’altro che l’imbarazzo della scelta. Andai tre giorni ad Amsterdam a fare l’interprete presso una fiera di prodotti marittimi. Andai ad un laboratorio di tre giorni a Verona, organizzato da MLAL, movimento laici America Latina, sperando di poter partire con loro per una esperienza di volontariato all’estero.  Poi non partii con loro. Ma in America Latina ci andai lo stesso, a Quito, in Ecuador, con un’amica. Rimanemmo due mesi, lavoravamo al doposcuola di una missione. Ci prendemmo anche una piccola vacanza, tre giorni alle porte della foresta Amazzonica. Viaggiammo un po’, qua e là. Valle Hermosa, come dice il nome stesso, ci colmò di colori, profumi, rumori per molti giorni a venire, dopo il nostro ritorno.

Tornata da questo lungo viaggio, mi rimisi a studiare, letteratura italiana questa volta. A settembre, infatti, avrei dovuto partire per Dublino, per lavorare nel dipartimento di italiano dello UCD come assistente di lingua, e per fare un dottorato. Ma era uno studio tranquillo, senza scossoni, senza paure. Quando arrivò l’estate, ero rimasta senza amici e senza contatti nella palude veneta. Capita così, a volte, quando uno non si sente a casa da nessuna parte. Quell’estate però, fu forse una delle più serene della mia vita. Non la più felice, no. Ma credo, la più serena, senza pensieri, senza ansie.

Lavoravo, come tutte le estati, in piscina come istruttrice di nuoto. L’ho fatto per dieci anni. Credo sia il lavoro più bello che esista, all’aperto, sotto il sole, in costume, coi bambini. Quell’anno mi pagavano parecchio, ed eravamo una bella squadra. Così, dalle 9 all’una, e a volte anche il pomeriggio, stavo in acqua, coi bimbi, Ma la cosa che mi interessa raccontare era il pomeriggio. Il pomeriggio smettevo i panni della istruttrice, mi rivestivo e andavo alla segreteria della piscina. Lavoravo lì fino alle sette di sera. Tutti i giorni. Era un lavoro semplice, bisognava iscrivere i nuovi bambini ai corsi, trattare con i genitori, far entrare gli ospiti del pomeriggio, organizzare i nuovi corsi. Ero impegnatissima. Ma era semplice. Io, in quei mesi, non ho pensato a nulla. Facevo quello che dovevo fare e basta. Stavo in piscina tutto il giorno. Trattare con le persone era facile. Ho dei modi naturalmente gentili, e la gente è normalmente ben disposta nei miei confronti. Era facile essere gentili, perché non era un lavoro faticoso.

Ecco, ultimamente penso che forse avrei dovuto fare un lavoro così. Un lavoro quasi meccanico, senza grandi pretese, dove le ore trascorrono, e tu ti senti utile, ma non attaccato, non in pericolo, non sotto esame.

Alle sette andavo un po’ al mare, poi tornavo a casa, con la mia bicicletta rossa. Cenavo con la mia mamma, e insieme guardavamo un film. Mi sentivo sola, sì. Però non stavo male, era tutto molto  regolare, molto tranquillo.

Poi a settembre partii. Quella fu l’ultima estate di lavoro in piscina.

Forse se non l’avevate capito dai post precedenti, sicuramente non mancherete di arrivarci con questo post benaugurante un nuovo anno a tutti: non amo molto le vacanze natalizie

Mi infilo in questo 2013 vestita di stracci, circondandomi di borocilline per la tosse, cospargendo malumore chi pijo pijo, e autopunendo la mia capacità di autodeterminazione con viaggi in treno non esattamente programmati, fughe verso la solitudine romana e borse non richieste sotto gli occhi. Buon anno a tutti.

Rientrata a Roma dopo una sorta di rocambolesca fuga da me stessa, ho diciamo così, programmato questi due tre giorni di studio forsennato, studio che è stato per così dire eletto a elemento scaccia-ansia, portatore di ordine interiore ed esteriore, pace dell’anima e armonia con parenti amici fidanzati e professori tutti. Il programma prevedeva sveglia presto, entro le otto, ascolto di pagina tre durante la frugale e breve colazione, velocissima riordinata dei locali domestici al fine di garantire un ambiente armonico e ordinato che riflettesse lo stato d’animo del diligente  studioso e, finalmente, dopo giorni di nostalgica sofferenza, l’ambito trono: collocazione alla dolce scrivania su cui riposano le amene carte dei miei studi dottorandeschi.  Sì, questo il programma. L’attuazione del suddetto è ben altra cosa. Si dia il caso che in questi ultimi giorni io sia riuscita spostare un tantino in avanti il ritmo del sonno così, pur essendo andata a letto molto presto per favorire il buon ritmo di apprendimento del discente compunto, mi sia di fatto addormentata ben oltre le tre. Ça va sans dire, la sveglia alle ore otto è stata ignorata, e preferita a una ben più volgare sveglia alle ore diecietrenta, l’infervorante riordinata interiore ed esteriore è stata sostituita a una scialba e oziosa passatina di spugnetta qui e là, e l’inizio del solenne e onorevole studio è stato ritardato alle ore mezzogiorno, cinque minuti dopo il quale ho ritenuto opportuno mettermi a cucinare per il pranzo.

Ma non temete. Sto prendendo il ritmo.

Jessico, riunioni collegiali, Mummy

– Non più sottoposta allo stress traumatico di ricorrenti viaggi in fatiscenti treni verso il lontanissimo nordest, e al conseguente stress settimanale di lezioni, seminari e riunioni, con tutto il suo strascico di ansia da prestazione, rughe, caduta capelli, tachicardie, lavoro accumulato, ansia e poi ancora? ah sì, ansia, mi ritrovo, sorprendentemente, ad avere più tempo. Tempo che dovrei comunque dedicare al dottorato, perché, non dimentichiamocelo, ora che ho finito tutta la frequenza, è arrivato il momento di scrivere una tesi di dottorato, ma, trovandomi lontana dalla sede universitaria e non avendo ancora incontrato il mio tutor che è appena tornato dopo un soggiorno di un anno in Africa, diciamo che mi ha colto una certa rilassatezza, uno svagamento, un senso di riposo, e così, insomma, mi sono iscritta in palestra. Ebbene sì. Sì, lo so, avrei preferito il charleston, il teatro e lo yoga, ma ci arriverò, prima o poi, ancor qualche migliaio di euro da spendere in officina, e ci arriverò. Per ora, avendo la palestra proprio davanti casa, mi diletto a sudare come un’ossessa saltellando alle lezioni di aerobica step e cose così. Torno a casa leggera come un’uccellino, di buon umore, canticchiando, e con tutto il mondo che mi sorride. E’ incredibile quello che può fare la serotonina. Anyway, dopo la mia lezione di aerobica, c’è la lezione di Zumba. Sì, la Zumba. No, non ve lo spiego cos’è, gugolate. Lo so, mi ero ripromessa che mai e poi mai, ma parevano tutti divertirsi un mondo, e il maestro è un ballerino di un metro e ottanta super snodato e muscoloso, e mi ha colto una fitta di dolore per il mio anno di immobilità forzata, e niente, ho provato (omg).  Che posso dirvi? L’ultima canzone proposta (sì sono arrivata alla fine), un motivetto calabrese o catanese, diceva più o meno così : “muovi il culo a destra, muovi il culo a sinistra, culo di qua, culo di là, trallallero trallallà”. E io l’ho ballato…Ma la cosa più bella è il nome del maestro, tanto per concludere il quadretto: si chiama Jessico, anzi Jethico, con un po’ di zeppola.

– oggi c’è stata la famigerata riunione di passaggio di anno dei dottorandi, sì, quella che ogni anno vi stresso. Posso dirvi in totale tranquillità e direi ormai con pacifica rassegnazione, che ho fatto schifo. Letteralmente. Solo che questa volta invece di essere in cinque, eravamo una quarantina di persone tra dottorandi e professori. Ma ormai se la saranno passata la voce che bagnarole è una povera idiota che non sa parlare in pubblico, e dunque nessuno mi ha interrotto (anche perché ho parlato 15 secondi in tutto) e dopodiché ho potuto scivolare nuovamente sotto la sedia,  a leccarmi le ferite.

– Piccolo siparietto familiare:

Mamma: senti, ma l’ultima volta che sei stata qui, sei stata educata nei confronti della vicina anziana? hai risposto male? hai fatto qualcosa?

io: no, perché? anzi, l’ho pure accompagnata al supermercato.

Mamma: perché l’altro giorno mi ha detto che la più simpatica della famiglia sei te. Mi sembra strano…

io: Eh, l’ha detto sul serio, pensavi che fosse ironica?

Mamma: veramente sì.

io: …

E’ la fase della procella

Finito il tempo della sveglia dopo le dieci, delle depilazioni compulsive, delle tintarelle lampo; finito il tempo delle vacanze all’estero, delle biblioteche europee e delle serate sul Reno; finito anche il tempo dei soggiorni parentali, della televisione tappabuchi e della birretta dopocena. Riapprodata in una giornata piovosa nella  città natia, casa mi ha accolto con un sorriso storto e sbilenco, quasi a volermi dire: ‘che ti aspettavi, così mi hai lasciato e così mi ritrovi’. Le finestre di legno marcito, i muri sgocciolanti (stanotte ho dormito al suon di plin plin), nuovi angoli nascosti che mai hanno visto la luce né sentito il tocco di una spugnetta. L’anima della massaia che alberga in me ha dato un spintone all’anima in bikini che ancora mi s-ciabatta dentro, e con un brusco ‘scansati’, ha preso la situazione in mano: armata di scopettone e Cif si è messa a svuotare e pulire le credenze della cucina. Nel frattempo, l’anima dagli occhialetti e lo sguardo affannato che dovrebbe studiare si sta tenendo nascosta dietro la solita colonna e fa la gnorri. Ancora qualche giorno, poi bisognerà stanarla dal suo nascondiglio e costringerla a produrre una relazione sullo stato di avanzamento della ricerca da consegnare entro metà settembre. E con tutte le me che vagano qui dentro, potete capire la confusione.

Fernando, il ferrocactus, si è rimpicciolito, raggrinzito e accartocciato su se stesso, è una pena guardarlo. Ho dato un’occhiata sull’internet, spiega che in estate doveva essere innaffiato abbondantemente ogni dieci giorni… è stato lasciato esposto al sole e al caldo torrido di luglio e agosto senza una goccia d’acqua. Ora lo stiamo accudendo con molte carezze e paroline dolci, e attendiamo miglioramenti.

Scuola è ricominciata stamattina. E’ una specie di teatrino che si ripete di anno in anno, sempre uguale a se stesso, con la sua parte piacevole e quella più ingrata. Essendo tutte donne, si alternano senza alcuna logica scoppi di risa, scoppi di pianto, grandi abbracci e grandi cattiverie. Ho una famiglia di sole donne, in classe alle superiori eravamo tutte femmine, all’università i maschi si contavano sulle dita della mano, ora anche il lavoro… uomini, me lo potete spiegare come (e dove) siete nel mondo?

Bibi

E’ una giornata uggiosa e monotona, grigia e piovosa.  Mi attende questa sera una cena familiare, con tutti i miei sette parenti riuniti  attorno all’antico tavolo dove un tempo si sedeva mia nonna a capotavola con la sua zazzera arancione e con le sue battute piccanti e poco consone alla sua veneranda età.

Non è passato molto tempo in questa famiglia da quando lo scatto generazionale ha prodotto in poco tempo quattro, no cinque, facciamo sette se consideriamo le ramificazioni da famiglia allargata, sette marmocchi dagli occhi grandi e le mani paffute, quasi tutti con lo stesso nome. Dovete sapere che nella mia famiglia si utilizzano quasi esclusivamente due nomi. Uno è il nome di mio padre, mio nipote, il primo marito di mia zia, il secondo marito di mia zia, il nipote del secondo marito di mia zia, e la lista potrebbe andare ancora avanti. L’altro nome è il mio, e anch’esso si tramanda di generazione in generazione.

Ma fino a pochissimo tempo fa, la piccola della casa, la pupa, per così dire ero io. E il mio nome, quell’inflazionatissimo nome di cui vi dicevo, nei primi anni della mia vita, non è stato mai usato. In casa, fin dalla nascita, io ero Bibi. Bibi, la piccola. Bibi, è piccola lei. Bibi, non la sgridate, che è piccola.

A cinque anni, forte della mia età e dei miei capricci, nella casa dei miei nonni, dove si passavano le vacanze e che ora non c’è più, non come la ricordo per lo meno, ho portato in casa la prima rivoluzione: io non sono Bibi. Io sono grande. Non sarebbe stata l’ultima. Mi sono buttata a letto a strillare e scalciare e agitarmi, piangendo lacrime, chissà, forse vere. Io sono grande, io non mi chiamo Bibi. Dopo due ore, hanno capitolato. Andando a cena con fare maestoso e ‘da grande’, nonni, genitori e cugini mi guardavano con aria intimorita e riverente. Non è più Bibi, è grande. Mi circondava un’aura di regale grandezza, di nuovo battesimo. Se per dirmi: su mangia, si sbagliavano e dicevano su, mangia Bibi, si mordevano le labbra, correggendosi subito. Ah no, non Bibi, è grande lei.

Dopo un po’, smisero di chiamarmi Bibi del tutto, non si sbagliavano più. Per un certo tempo, ho rimpianto questo soprannome, essere piccoli a volte fa comodo. Andò a finire nel dimenticatoio e ne  rimane traccia solo come scritta dietro alcune vecchissime foto in cui sorrido in un passeggino con dei sassolini in mano.

Ho conquistato il mio nome con le unghie e con i denti, come del resto tutto ciò che oggi mi appartiene.

Wild Montana skies

La pineta stamattina era una distesa di neve bianca, puntellata qui e là di stralci di rami sradicati durante le notti di vento.  La pineta è una parentesi della Roma romana, un fazzolettone di terra incoltivata, con discese e salite, arbusti e alberelli, che inaspettatamente si srotola nel bel mezzo di due quartieri trafficati, tra un semaforo e un altro.  Qui niente panchine, ogni tanto una sedia di metallo appoggiata ad un albero. Come ai Jardins du Luxembourg. In settembre, quando il caldo e l’inquietudine di fine estate impedivano di rimanere in casa, venivo a sedermi in una di quella seggiole di metallo a leggere Guerra e Pace e ascoltare i grilli. Così queste quattro parole – settembre, grilli, Tolstoj, pineta – vanno ora per mano nella geografia delle parole che addolciscono la mia permanenza qui.

Stamattina, il rumore dei piedi affondati nella neve,  le grida dei bambini su slittini improvvisati con materassini e pezzi di cartone, il sibilo degli sci di qualche ironico sportivo, mi ha riportato mille anni lontano da qui. Mentre chiudevo gli occhi e assaporavo il tepore del sole sul viso, mi ha colpito qualcosa in pieno viso. Pensavo fosse una palla di neve. Invece no. Era una madeleine.

A quando si era piccolissime, io e mia sorella, e si passavano due settimane a gennaio sulla neve. Lo so che oggi potrebbe sembrare impopolare, ma si passavano a Cortina, dal momento che la mia famiglia, quando noi eravamo piccolissime, si trattava molto bene. Poi siamo decaduti, abbiamo dimenticato molte cose, abbiamo cambiato pelle e case molte volte. Oggi cerchiamo di raccattare brandelli e pezzettini di quello che eravamo una volta.

Allora era tutto bellissimo ed eravamo felicissime, io e mia sorella. Ricordo il colore della neve, giallino o rosa pallido a seconda dell’anno, con quelle mascherine da provette sciatrici addosso, e il loro inconfondibile odore di gomma. Tutto il mondo era giallino o rosa pallido in quelle sciate lunghe pomeriggi. Le manopole che non tenevano mai abbastanza caldo. Gli scarponi rossi di Tecnica, i ricci bagnati e scomposti che uscivano da sotto cappelli di lana. Il calore del sole sulle panchine della baita. Io che cantavo come una pazza mentre scendevo col mio stile di piccola della famiglia che lasciava alla sorella maggiore il compito e la responsabilità di quella brava negli sport. A me, non me ne fregava niente. Mi bastava fare la scema e cantare con un po’ di neve in bocca. Ogni tanto mi lasciavo cadere per terra. Per farmi male. Per farmi coccolare. Per riposarmi un po’. Cadevo anche da ferma. In quel trenino fatto di tre persone che scendevano in fila indiana, con mio padre che a ogni curva ripeteva, come un mantra: punta il bastoncino, e via! , l’ultima della fila ero sempre io, con il naso rosso e le braccia aperte come ad abbracciare l’aria.

Le parole. Le parole ricordano tutto. Ricordano più di quanto sia in grado di fare io. Le parole hanno conservato il batticuore di quei giorni, l’euforia e la bellezza. Le parole cristallo, faloria, socrepes, tofane, valbadia, isidoro (il nostro cattivissimo maestro privato), portano in sé il colore della neve che brilla al sole, o il grigiore di una giornata di bufera, la leggerezza di uno ski lift facile facile o il terrore di una seggiovia a seggiolini singoli sospesa nel vuoto, la velocità di una pista verde, e l’asprezza, la lentezza complicata di una pista rossa, o nera. Quanta paura a volte.

Poi in macchina, tornando all’albergo, ci si toglieva i calzettoni e le calze, ci si metteva comodi e si guardavano dal finestrino le ombre che si allungavano mentre le solite cassettine, quelle adibite ai viaggi in montagna, suonavano quelle canzoni che per me rimarranno sempre indissolubilmente legate a quella macchina, quelle montagne così belle, quei viaggi.

Vi prego, portatemi a sciare. Prometto, sto buona.

Divagazioni sparse su ritorni a scuola, cinepanettoni, case e libercoli e accenno di incoraggiamento e sollecitazione all’ottimismo: va bene.

Oggi è ricominciata la scuola. Va bene.

Le mie colleghe hanno detto: “che bello il cinepanettone di quest’anno”. Poi siccome le guardavo hanno anche detto: “una stronzata eh, però, tanto carino. E poi Cristian De Sica è proprio forte”. Al che c’è stato un boato di consensi: “A me Cristian De Sica me fa ‘mmazzà darride! Quante me piace a me!”. Va bene.

Allora ho capito e per l’ennesima volta mi sono ripetuta: mi raccomando te devi sta’ zitta, zitta devi stare a scuola, devi parlà il meno possibile. Sì, parlà, perchè quando sto a scuola, un po’ debbo parlà anch’io così. Va bene.

Correzione compiti delle vacanze, nemmeno ve lo sto a di’ (di’). Prof! io li ho fatti tutti ma li ho lasciati in montagna! Prof! io ho fatto stamattina lo zaino, e non so, pensavo di non avere inglese. Prof! ma perché c’era anche questa pagina da fare? Prof! io li ho fatti, eccoli! (mostrandomi una pagina di quaderno di sei mesi fa). Prof! ecco gli esercizi, è questo, no, è questo, no, è questo, ma dov’è? non li trovo più, ci devono essere da qualche parte (se non lo sai te!) Va bene.

Tornare a Roma è stato bellissimo (sì il piano di passare le vacanze natalizie sola e barricata in casa è abortito miseramente). Tornare in un posto, che, nonostante tutto, mi sento a casa (quanto a sintassi, questa frase potrebbe averla scritta Vasco o, al massimo, Jovanotti). Com’è possibile, dico io, che mi senta a casa solo qui. Sì probabilmente è dovuto anche al fatto che era la città del defunto genitore e qui se volete possiamo grattarci sopra una spolveratina di Freud. A Roma mi sento a casa, e invece dopo aver vissuto per più di vent’anni nell’angolino veneto, tornare lì è sempre una gran tristezza. Tornare a Roma mi mette euforia. Poi, sarà anche brutta, però è casa mia. Ahhh casa mia che bellezza. Ci saranno anche gli infissi delle finestre talmente marci che tra un po’ viene giù tutto, però pur sempre è casa mia. E poi oggi andare al mercato ahhh che emozione, e comprare la scarola i broccoletti napoletani (chessò? come se fanno?) e le puntarelle, che goduria.

Casa. Concetto strano. Una volta pensavo che Dublino fosse casa, poi quando ci sono tornata lo scorso luglio, non mi sembrava casa per niente. Anzi mi metteva molta tristezza. E’ un po’ strano perché per alcuni casa è un concetto scontato, non è che uno deve scegliere dove deve vivere, ci vive e basta. Guarda i romani per esempio. Loro stanno sempre a lamentarsi di Roma, del traffico dello smog etc. però non è che si spostano, questa è la città loro, ci rimangono. Io invece che vivo mezza settimana qui e mezza tra Venezia e l’angolino veneto, e che ogni tanto vado nel rifugio toscano e malcapitatamente investo pure il futuro sul rifugio toscano (vi spiegherò), e poi non sto bene quasi da nessuna parte, però a roma ci rimarrei volentieri, beh insomma, per me il concetto <casa> è un concetto tutto in costruzione, molto astratto, molto volatile e mutevole.   Va bene.

Poi, già che ci sono, io volevo anche dirvi che ultimamente, tra le altre cose, ho letto The Ginger Man di James Patrick Donleavy che è un autore irlandese americano che nessuno conosce, e che però, non temete, non è il mio autore di dottorato, anche se sarebbe stato molto interessante, e che comunque leggetelo.

Va bene.

Sardia, amici capelloni, vento e sole.

La Sardia è lontana. La Sardia dista nove ore e mezzo di draghetto notturno. Per la Sardia c’è la cuccetta che costa novanta euro con i letti e le comodità, ma c’è anche il pontile fuori assieme al cane che non costa nulla basta avere un sacco a pelo e un compagno di viaggio uomo-termosifone. Vada per il romantico pontile all’addiaccio. Ho il naso chiuso e un po’ di mal di gola. Vuol dire che mi avete attaccato l’influenza? vuol dire che vi piaccio circondata di moccichini umidi e stropicciati? potete essere stati solo voi, visto che in questi giorni di natale non ho visto nessuno, salvo bobo il gatto toscano e una montagna di cibo che non posso mangiare visto che il mio colesterolo totale tocca i 400.

La Sardia d’inverno: il mirto sbattuto dal vento e il mare forza cinquanta. Il sole freddissimo e la gente col chi-uei. La mia amica che rincorre il pupo teppista, e il panettone profumo di capra.

La Sardia d’inverno senza macchina e senza moto. Un sacco a pelo e la campagna. Speriamo di dimenticarci che è capodanno e di passare una normalissima serata con i buoni amici ricci e capelloni e figliuolo new entry che ha appena imparato a correre.