Una parte di me vorrebbe intitolare questo post: Come ottenere un dottorato immeritatamente. Ma ho deciso di ascoltare quell’altra parte di me che dice: “Ce l’hai fatta sii felice!”

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La mattina del 23 febbraio non ero così tesa e preoccupata come pensavo. Sarà stata la cura di due valeriane al giorno osservata accuratamente da una settimana. Sarà stata la rassegnazione con cui il condannato a morte accetta la sua sorte il giorno dell’esecuzione. Sarà stata anche la fioca consapevolezza che nel giro di poche ore tutto sarebbe stato compiuto. Nel bene o nel male, tutto sarebbe presto finito. Così, se nei giorni precedenti l’angoscia universale aveva toccato picchi di disperazione cosmica e desiderio di morte, quella mattina, l’unica sensazione era quella di una ottusa insensibilità, un menefreghismo latente, un indifferente automatismo. Potrei dire un altero atarassico innalzarmi al di sopra delle meschine preoccupazioni della giornata, come ad una dea che sbadiglia di fronte alle tediosi occupazioni dei mortali.

Ci ha pensato mia mamma comunque a precipitarmi in pochi secondi a ben più terreni desideri – tipo dare un pugno al muro, scaraventarmi per terra a piangere, o semplicemente imprecare – costringendomi ad un servizio fotografico fino a pochi minuti prima di cominciare.

Mi avevano assicurato che sarebbe stata una discussione piacevole, tra vecchi amici esperti della materia. Forse si sono dimenticati di avvertire una dei tre professori che facevano parte della commissione che a) era una discussione piacevole, amichevole; b) ero io che dovevo fare bella figura, non lei! Dunque la suddetta professoressa ha letteralmente rubato la scena alla nostra e agli altri professori, lanciandosi in interrogazioni relative a disquisizioni teoriche postcoloniali di altissimo livello, sfumature di significato nella scelta terminologica, investigazioni capillari sulla vita intellettuale dei due autori. Interrogazioni sempre più serrate che, pur avendo lasciato senza fiato la nostra, non le hanno comunque impedito di trovare una risposta ad ogni domanda. O per lo meno di non fare scena muta. La nostra ha sempre risposto, ha sempre detto qualcosa ad ogni riguardo. Che poi la sua risposta sia stata pertinente alla domanda, questo lo lasciamo ai posteri di decidere.

La nostra eroina si ritiene soddisfatta di avere sostenuto un’ora e mezza di terzo grado. Dopo ben più semplici e informali domande da parte degli altri due commissari, i tre si sono ritirati nelle loro stanze per deliberare il verdetto. Mentre la nostra sentiva soltanto ora l’adrenalina salire salire nelle sue vene, facendola sentire improvvisamente onnipotente e bellissima, i tre commissari la richiamarono nella sala dove, al cospetto di una claque di tutto rispetto – una mamma e un neo marito – la nostra è stata ufficialmente proclamata Dottore di Ricerca in Lingue Culture e Società.

Usciti dal dipartimento, la città Lagunare l’ha accolta in un tripudio di sole e calore primaverile, nel quale l’eroina del momento si è tuffata, soltanto ora godendosi il sollecito utilizzo materno della macchina fotografica.

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Sorella e nipotina l’hanno raggiunta giusto per l’aperitivo a campo Santa Margherita, luogo in cui la nostra aveva festeggiato la sua laurea, E in questo doppio festeggiamento – del dottorato e di avere in una magica mattina di febbraio accanto a sé gli affetti più cari – la nostra si è semplicemente sentita molto felice.

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Here comes the sun (notate il luminoso ottimismo di questo titolo che invece di soffermarsi sull’angoscia esistenziale del presente, prefigura un futuro vicino di liberazione e spensieratezza)

Discussioni di alto livello tra me e la bottiglietta d'acqua

Discussioni di alto livello tra me e la bottiglietta d’acqua

– Il giorno della discussione è minacciosamente vicino, alla soglia direi, foriero dei più terribili incubi notturni, notti insonni, tachicardie insopportabili, attacchi d’ansia e senso di morte e devastazione universale. L’avvicinamento del giorno temuto è stato accompagnato da studio folle ed agitato, ma soprattutto da picchi di nervosismo e angoscia esistenziale, trovando infine una definitiva valvola di sfogo nello studio della preside, una mattina, dove, con occhi colmi di lacrime e singhiozzi mal trattenuti, la dottoranda fiammiferaia ha dato sfogo al peggio di se stessa, terminando la sua disperata condanna a morte con un: “Non ce la faccio. Dammi due giorni di permesso per studiare.” Giorni che le sono stati accordati con forti abbracci, incoraggiamenti e consolazione e soprattutto con un accomodante e cauto: “Stai tranquilla,” che come un mantra, colleghe, preside e vicepreside tutte mi stanno ripetendo, con voce sottile e suadenti. Temono un esaurimento nervoso.

Non sanno che sono sempre così.

– la dottoranda fiammiferaia è molto in ansia, soprattutto ha paura che l’emozione la rincoglionisca e non sappia più nè parlare inglese nè ricordare cosa ha scritto sulla tesi. Però si è presa un meraviglioso vestito, un cappottino rétro, e soprattutto un cappello a bombetta che, una volta terminato l’incubo, farà innamorare tutta Venezia.

– La dottoranda fiammiferaia si è anche fatta un regalo di dottorato. Per sancire la libertà appena conquistata, nonostante l’esito dell discussione, la nostra andrà a sciare, un’attività che la riporta indietro nostalgicamente ai ricordi di infanzia e che ha intensamente desiderato per molti molti anni.

– La dottoranda fiammiferaia ha una lista di cose che vorrà fare quando sarà finalmente libera, quando lavorare solo a scuola le sembrerà pura vacanza, quando i weekend non dovrà stare alla scrivania a studiare a scrivere. Spera tanto che non siano solo illusioni.

Ultimi rigurgiti accademici prima del tuffo nel mondo del design

Un ultimo weekend trascorso a Venezia e nella palude veneta, ha portato con sè:

– la visione strappalacrime di Frozen, nuovo cartone della Disney, dove due sorelle si perdono e poi si ritrovano, dove le emozioni e la paura creano voragini difficilmente ricomponibili, dove il principe azzurro non esiste, dove il primo amore è piuttosto un secondo amore, e dove ovviamente alla fine vissero tutti felici e contenti, ma questo è la parte Disney che non hanno ancora modificato. Vedere questo cartone con mia sorella, mia mamma e i miei nipoti ha provocato nodi alla gola e occhi gonfi di lacrime che sono passati inosservati grazie alle imprese canore della nipotina di cinque anni che correva per i corridoi cantando tutte le canzoni del cartone a memoria e a momenti anche Shakira;

– La consegna della tesi, completa di firme del tutor e del coordinatore di dottorato, in numero di tre copie alla segreteria studenti, al mio tutor e al mio professore di laurea, mentore super partes di questo dottorato. Il fatto che questo momento topico della mia vita, la consegna di un lavoro di quattro anni, non abbia portato con sé alcun senso di piena soddisfazione, entusiasmo, eccitazione, o per lo meno orgoglio, combinato al fatto che – cominciato quel giochino su fb in cui devo scrivere tre pensieri positivi al giorno per 5 giorni – annego in una difficoltà indicibile nel formulare detti pensieri positivi, nonostante la mia vita sia in questo momento grondante di cose belle, mi fa riflettere su questa assenza di lessico nel mio cervello e sulla cronica mancanza di colori vivaci nella gamma spezzata delle mie emozioni.

Tornata a Roma, mi ha investito La Fase dei Lavori e La Fase dell’Acquisto di Mobili, e con sé grande senso di inefficienza, incompetenza, e incapacità. Manco lo dovessi rifare io il bagno. Nonostante ciò, un intero sabato trascorso a Ikea a scegliere la cucina è stata esperienza intensamente istruttiva, comica a momenti e foriera di grandi idee. Complice il mio acquisto e lettura compulsivi di CasaFacile da un paio di mesi, come al solito nel mio modo ossessivo e patologico mi sono lanciata nel mondo del décor, dell’arredamento e del fai-da-te. Tutto immaginario. Trascorro ore a sfogliare riviste e a immaginare acquisti e arredi che difficilmente potremo mai permetterci. Tuttavia, è un’attività nuova e che piacevolmente riempie il tempo che per ora non sto trascorrendo a studiarmi e rivedermi la tesi. Cosa questa che ricomincerò febbrilmente a fare non appena i livelli di ansia raggiungeranno vette e picchi non facilmente smaltibili.

Tutt’attorcigliata

Oggi mi è arrivata una mail che spiega le incombenze di una giovane dottoranda alle prese con il ricevimento di un importante scrittore in arrivo nella città elastica. La mail elenca in pochi punti i doveri di dottoranda attenta, responsabile, capace. La mail così recita:

Tutor
I tutor sono gli angeli custodi degli autori durante le giornate del festival. Saranno sempre a loro disposizione e, in particolare, dovranno:

  • occuparsi di accompagnare l’autore affidatogli al suo incontro;
  • far scorrere le slides durante la lettura;
  • assistere la troupe che fa le riprese video durante la breve intervista che si tiene alla fine dell’incontro (o in un altro momento), facendo anche da traduttore;
  • accompagnare l’autore agli eventi sociali in programma (se aderisce);

La giovane dottoranda in questione, trasudante responsabilità, sicurezza, capacità e orientamento sarei io. Haha.

Alla lettura della mail, nell’annebbiamento che ne è seguito, con improvvisi giramenti di testa, senso di vertigine e sudorazione fredda, non riuscivo a ricondurre a me il significato di alcune vocaboli. Festival? Slides? Troupe? Riprese video? Traduttore?

Ma di che cosa si tratta? di chi, di chi si sta parlando? Di me? Ne è seguito una fase di intensa depressione, pensieri di morte e sotterramento, macumba nei confronti di scrittori e professori tutti,  strappamento di capelli, lancio di sguardi di abbandono e incomprensione al cielo, pestamento di piedi a terra, piagnucolii al suon di No no e No.

Dopodiché ho dovuto ricompormi, visto che nel frattempo nello studiolo era entrato un professore a prendere un libro, e non mi sembrava il caso che mi vedesse stesa per terra a piangere con la faccia incassata nel gomito.

Allora mi sono ricomposta e ho deciso che passerò i prossimi venti giorni parlando solo inglese, allenandomi con il power point, imparando a muovermi per la città allungabile come fanno gli indigeni, con la testa tra le nuvole e dieci centimetri da terra, e nascondendo il fatto che dentro mi sento così, tutt’attorcigliata.

 

Il mio paese

Ancora non l’ho capito se un paese di circa cinquantamila abitanti può essere elevato alla categoria delle cittadine, io ultimamente mi sto abituando a chiamarlo paese, anche se forse sarebbe più corretto chiamarlo cittadina, mentre non credo possa nemmeno sognarsi lo status di città. In ogni caso questo è  un dubbio che mi ha arrovellato il cervello a lungo, tutt’ora direi, dal momento che il mio non è un paese/cittadina che molti conoscono, quindi quando ti chiedono di dove sei sei costretto a dare spiegazioni, a darne le coordinate, a dire è una cittadina/paese vicino V. C’è sempre stato questo indugiare della voce al momento di rispondere: è un…..cittadina, vicino V. In ogni caso dicevo che ultimamente io sarei più propensa a chiamarlo paese, a chiamarla paese, direi, dato che è femmina. E’ una bella femmina, niente da dire. E’così bella, incastonata come una perla dentro la laguna veneta..ah no, che dico, quella è Venezia, scusate. Beh allora il mio paese, che è femmina, è incastonato nella laguna veneta, se non come una perla, quantomeno come un mollusco rinsecchito dentro la sua conchiglia.

Il mio paese è un pesce, altro che Venezia, Tiziano Scarpa pensava ad altro quando ha scritto quel libro. Il mio paese è costruito a forma di lisca di pesce, veramente però. Dal corso del popolo, dipartono a destra e a sinistra le calli interrotte da ponti e attraversate da canali, le calli che sono le spine del pesce. Io ci ho abitato per qualche mese in una di queste spine di pesce, quando giocavo al gioco che prima o poi mi ci sarei abituata a vivere nel mio paese e allora vivevo in una di queste spine, stendevo i panni fuori dalla finestra, ascoltavo la radio che cantava dalle finestre delle donne dirimpettaie che cantavano ramazzotti e tozzi dalle loro finestre, manco fossimo tornati negli anni 80. Mi sembrava di vivere nel sottobosco del mondo, il sottobosco fatto di mattine passate a lavare le tende, pulire le finestre passare lo straccio, spettegolare con la vicina della finestra di fronte, in dialetto stretto, ovviamente che poco ci capiresti se non fossi del posto, e io ci capivo quasi. Io non le facevo queste cose, io mi facevo il bucato una volta al mese, che è il tempo che ci mettevo per riempire una intera lavatrice, però le guardavo queste cose, le sentivo le donne, dalla finestra. E mi chiedevo che ci faccio io qui?

Il gioco che mi abituavo a vivere nel mio paese è finito che me ne sono andata nella capitale, e che ho smesso di stendere i panni fuori, e di ascoltare la radio delle altre signore e di fingere di essere l’insegnante straniera che è venuta da molto lontano a lavorare al paese, mentre in realtà la mia vera casa stava a un chilometro di distanza.

Una cosa bella del mio paese anche se è un po’ inquietante, è quando le sere d’inverno imbavagliate dalla nebbia, si sente in lontananza il suono delle navi che si chiamano e si avvertono. é un suono triste  e cupo, che strappa il lenzuolo bianco che è calato sul mare e sui ponti, e che parla di lontananza e di nostalgia, di freddo e di oblio. E’ così bianca la laguna quando è imbavagliata dalla nebbia.

Piangono le navi nella nebbia come balene intrappolate nella rete.