Dichiarazione al sé

Mi piaci quando ridi di gusto. Mi piaci quello che scrivi, io non so scrivere bene come te. Mi piaci quando ti fai abbracciare e ti godi tutto il benessere. Mi piace che hai un aspetto spirituale che ti da equilibrio e armonia. Mi piace come ti vesti. Mi piace come ti esprimi con il corpo, che non hai vergogna a mostrarlo alla persona che ti vuole bene e che ti fa stare bene. Mi piaci quando sei stesa sul prato, con la faccia al sole, gli occhi chiusi e il sorriso sulle labbra. Mi piace che ti vengono mille idee e l’entusiasmo di realizzarle, che viaggi a vele spiegate e non hai paura di nulla. Mi piace che sei curiosa, entusiasta di tutto e di buon umore, e che anche quando piangi non sei disperata, solo triste. Mi piace il tuo amore per le piante, che ci parli e le curi, e la gioia che ti danno quando spunta un foglia o addirittura un fiore. Mi piace che te ne vai  a leggere alla pineta, e che ti godi quei momenti in solitudine, perché sono rilassanti e rigeneranti. Mi piace che ami viaggiare, so che lo desideri tantissimo, e sono sicura che questa volta ci riusciamo, faremo un viaggio tutto come dici tu.

Mi spiace che ti tengo in un angolino. Mi sei mancata tanto.

Dicono che devo fare le cose che mi piacciono

IMG_20160508_120659Dicono che devo fare le cose che mi piacciono. Dicono che non devo accontentare nessuno, ascoltare l’opinione di nessuno. Solo la mia. Dicono che devo cominciare dalle cose piccole. Che la mattina devo alzarmi e chiedermi: “cosa ti piacerebbe fare oggi?” Dicono che non mi devo spaventare, che non devo pormi traguardi troppo alti. Cose piccole, mi ripetono.

Allora cerco di fare le cose che mi piacciono. Non ci sto troppo a pensare, che sennò mi confondo, non so più cosa voglia dire, mi perdo. Il sabato mattina, per esempio, vado a fare una passeggiata alla pineta. Non ci andavo più da tempo, e non ricordavo più quanto mi rilassasse, quanto mi piacesse. Mi fermo a leggere seduta su un tronco d’albero caduto a terra, il viso rivolto al sole, che ancora non è così caldo, e stare al sole è una sensazione piacevole di tepore. Altre volte passeggio. Ho scoperto che la pineta non è soltanto quel grande fazzoletto di terra incolta, quel pratone di erba alta che credevo. Mi sono addentrata in un sentiero dietro la biblioteca e ho scoperto che la pineta è una foresta, un bosco fitto, che ci sono stagni, ponticelli di legno, boschetti di querce, salite ripide e discese, piccoli canyon di terra rossa e riarsa. Il fatto che io abiti da sei anni dietro la pineta e che non mi sia mai addentrata a esplorarla, che mi sia sempre accontentata della camminata dove ci sono i pini e la gente  che corre, è indicativo di come io sia fatta. C’è un profumo di erba e di piante che non conosco, di cui non ricordo il nome. C’è il fango per terra, e devi stare attento a non scivolare. E’ bellissimo. Vorrei tornare ancora.

Il sabato pomeriggio spesso sono sola a casa, per circa due ore. Qualche volta esco. Ho fatto lunghi giri in centro, cammino guardo le vetrine, se mi va mi compro qualcosa, un libro, un vestito, un caffè. Altre volte invece rimango a casa, sul divano. Scelgo un cd tra il migliaio circa che abbiamo a casa. Sono troppi per me, mi perdo, ma non importa. Ne scelgo uno, e lo ascolto, da sola, leggendo. Cerco di godermi il momento di silenzio, di riposo, e il fatto che il cd l’ho scelto io, tra mille, e che quella musica ora è anche un po’ mia.

Una delle cose che mi piace fare è scrivere qui. Ho smesso da un po’. Ma ora cerco di ricavarmi dei momenti tutti miei e di scrivere qualcosa. Spesso mi trovo ripetitiva e noiosa, ma mi dico che non importa, che scrivere è una delle cose che certamente amo fare, e in questo periodo quando mi ci metto, qualcosa esce. Ho trascorso mesi a riprovare e a sentire un vuoto totale e assoluto dentro di me. Nessuna parola in vista. Nessun pensiero. Il vuoto. Ora scrivo cose piccole, ma non importa. Ho cominciato a scrivere un racconto. Lo tengo in una cartella nascosta nel computer. Mi scoraggio e lo trovo orrendo. Scrivo dieci righe, poi mi fermo incapace di andare avanti, di avere una idea di come dovrebbe andare avanti. Allora spengo. Poi un altro giorno mi ci rimetto e scrivo un’altra decina di righe. Non so cos’è, non sarà nulla come spesso mi accade. Ma mi piace. Mi affatica ma mi piace.

E poi, una mattina, dopo un bellissimo colloquio con il meccanico, che a quanto pare il catorcio s’è rotto nuovamente, una mattina ho fatto un acquisto. L’ho svestito di qualunque idea di risultato, conseguenza, progettazione. Un acquisto senza motivo, solo per il bello di averla a casa, sfogliarla, immaginare. Ho comprato la Lonely Planet dell’India. In inglese. E’ arrivata, e ogni giorno qualcosa succede. Un piccolo movimento nella mia testa. Date della partenza. Itinerari. Sussulti di piacere. Di paura. E di piacere.

Ho difficoltà a pensare a me ad agosto. Cerco di fare le cose piccole che mi piacciono in questo momento, senza pensare al dopo. Sfoglio la guida dell’India, leggo i nomi difficili dei luoghi, delle città, immagino senza ben capire, che non ho idea di cosa voglia dire andare in India. Immagino. Passeggio in pineta, leggo il mio libro. Cerco di non preoccuparmi.

 

Angoli di periferia

Ho sognato che camminavamo su un prato incolto, uno di quei grandi fazzoletti di terra incolta e inaspettata che a volte costeggiano strade di periferia romana. Da un lato la strada, il traffico, lo sporco dei marciapiedi, e dall’altro un angolo di erba alta, fiori, farfalle, un gran silenzio, il rumore dei nostri passi sull’erba. Vorrei nominare tutte le specie di piante che abbiamo incontrato, ma non ne so nulla, dovrei forse chiedere a te che mi accompagnavi, tenendomi la mano. Tu davanti a me camminavi, creando un sentiero. Io dietro, sorridevo, toccavo l’erba con una mano, la stringevo e la lasciavo. C’erano fiori colorati e tante farfalle, e mi sono stupita, è un insetto che non si vede più tanto a Roma. C’erano delle foglie che mi pungevano le caviglie, e delle piante che erano alte quanto me. Ci fermavamo dove l’erba era ancora alta ma non poi così tanto e ci stendevamo sull’erba. Il cielo era grigio ma caldo e il sole seppur coperto batteva sugli occhi. Distesa allungavo le braccia e toccavo l’erba, la terra. Qualche moscerino ronzava. Mi sono sfilata la maglia che avevo addosso, e avrei tolto anche tutto il resto. Ti guardavo, non ero tanto sicura. Ma il prato era bellissimo, e il cielo sopra di me, e il sole negli occhi. E i fiori violetti, e le farfalle.

Quando mi sono risvegliata, ho dimenticato tutto il resto. Ma il prato no, il prato era bellissimo.

Ancora di pesci

Sono a casa da sola. Non capita spesso. Sto bevendo birra con una certa veemenza, ascoltando Pet Sound e preparando una torta salata, perché di qualcosa dovrò pur nutrirmi. Mi sembra di pescare. Lancio la lenza in profondità, tento dei lanci a vuoto, ma l’amo rimane in superficie, sbatte contro qualcosa di duro, e asciutto. Poi non so come, trova una crepa acquosa, vi si immerge, cala giù. La lascio scendere, sprofondare, l’amo appuntito, il filo teso, spero che trovi qualcosa, spero che si impigli, spero di sentire la lenza tendersi. Spero di tirare a riva qualcosa. Qualsiasi cosa, una scarpa, una vecchia bicicletta arrugginita, una valigia vuota. Spero di trovare qualcosa.

Vorrei pescare un pesce. Dalle squame variopinte, metalliche ed elettriche, lo sguardo terrorizzato ma spaventosamente vivo e volitivo, le branchie affannate ad afferrare gli ultimi secondi di ossigeno. Non voglio soffocarlo, non voglio ammazzarlo. Solo guardarlo, magari metterlo in una bolla d’acqua per un po’, gustarne la bellezza, l’esotismo delle sfumature colorate, i movimenti guizzanti, lo sguardo liquido e così profondamente attento. Guardarlo un po’, poi liberarlo, perché, ad essere onesti, non so come si faccia a tenere un pesce in vita. Qui morirebbe. L’aria è asciutta e non c’è acqua. Lo guardo un po’, poi lo lascio rituffarsi giù nel profondo, libero di andare. Quando lo libero giù nel crepaccio profondo, rimane in superficie, mi guarda. Mi parla, con quel linguaggio dei pesci che ancora non ho imparato. Non capisco cosa mi dica.

Allora immagino. Immagino che dica vieni con me.

Terrorizzata, mi tuffo.

Jessico, riunioni collegiali, Mummy

– Non più sottoposta allo stress traumatico di ricorrenti viaggi in fatiscenti treni verso il lontanissimo nordest, e al conseguente stress settimanale di lezioni, seminari e riunioni, con tutto il suo strascico di ansia da prestazione, rughe, caduta capelli, tachicardie, lavoro accumulato, ansia e poi ancora? ah sì, ansia, mi ritrovo, sorprendentemente, ad avere più tempo. Tempo che dovrei comunque dedicare al dottorato, perché, non dimentichiamocelo, ora che ho finito tutta la frequenza, è arrivato il momento di scrivere una tesi di dottorato, ma, trovandomi lontana dalla sede universitaria e non avendo ancora incontrato il mio tutor che è appena tornato dopo un soggiorno di un anno in Africa, diciamo che mi ha colto una certa rilassatezza, uno svagamento, un senso di riposo, e così, insomma, mi sono iscritta in palestra. Ebbene sì. Sì, lo so, avrei preferito il charleston, il teatro e lo yoga, ma ci arriverò, prima o poi, ancor qualche migliaio di euro da spendere in officina, e ci arriverò. Per ora, avendo la palestra proprio davanti casa, mi diletto a sudare come un’ossessa saltellando alle lezioni di aerobica step e cose così. Torno a casa leggera come un’uccellino, di buon umore, canticchiando, e con tutto il mondo che mi sorride. E’ incredibile quello che può fare la serotonina. Anyway, dopo la mia lezione di aerobica, c’è la lezione di Zumba. Sì, la Zumba. No, non ve lo spiego cos’è, gugolate. Lo so, mi ero ripromessa che mai e poi mai, ma parevano tutti divertirsi un mondo, e il maestro è un ballerino di un metro e ottanta super snodato e muscoloso, e mi ha colto una fitta di dolore per il mio anno di immobilità forzata, e niente, ho provato (omg).  Che posso dirvi? L’ultima canzone proposta (sì sono arrivata alla fine), un motivetto calabrese o catanese, diceva più o meno così : “muovi il culo a destra, muovi il culo a sinistra, culo di qua, culo di là, trallallero trallallà”. E io l’ho ballato…Ma la cosa più bella è il nome del maestro, tanto per concludere il quadretto: si chiama Jessico, anzi Jethico, con un po’ di zeppola.

– oggi c’è stata la famigerata riunione di passaggio di anno dei dottorandi, sì, quella che ogni anno vi stresso. Posso dirvi in totale tranquillità e direi ormai con pacifica rassegnazione, che ho fatto schifo. Letteralmente. Solo che questa volta invece di essere in cinque, eravamo una quarantina di persone tra dottorandi e professori. Ma ormai se la saranno passata la voce che bagnarole è una povera idiota che non sa parlare in pubblico, e dunque nessuno mi ha interrotto (anche perché ho parlato 15 secondi in tutto) e dopodiché ho potuto scivolare nuovamente sotto la sedia,  a leccarmi le ferite.

– Piccolo siparietto familiare:

Mamma: senti, ma l’ultima volta che sei stata qui, sei stata educata nei confronti della vicina anziana? hai risposto male? hai fatto qualcosa?

io: no, perché? anzi, l’ho pure accompagnata al supermercato.

Mamma: perché l’altro giorno mi ha detto che la più simpatica della famiglia sei te. Mi sembra strano…

io: Eh, l’ha detto sul serio, pensavi che fosse ironica?

Mamma: veramente sì.

io: …

Il ricettacolo della massaia impazzita e del tisico angosciato

Capitano su questo blog sconosciuti di solito all’apice della disperazione e alla ricerca di malattie oscure e angosciose, di solito digitando tisi/tisico/sono tisico, ma anche alla ricerca di incubi inconfessabili di insetti, fantasmi e mostri notturni; altre volte però l’ossessione che coglie inaspettata i visitatori di questo blog è quella della massaia, delle pulizie, della casalinga impazzita. Ecco allora che a capitare qui sono visitatori anonimi che cercano: “come si chiama il panno che si mette in testa per portare bagnarole”, oppure “come si chiama la bagnarola dei panni”.

Io non lo so come si chiama la bagnarola dei panni, non so nemmeno cos’è. Qualcuno lo sa?

Sbucciata

Oggi, mentre correvo in pineta, sono caduta. Sono inciampata su un ramo che sporgeva e ho fatto un volo in avanti. E’ stato bellissimo. Le gambe che mi tremavano, la fatica a rialzarsi, l’elettricità del dolore alle ginocchia  e ai piedi, l’imbarazzo impacciato, l’attenzione su di me, la voglia di ridere. Il mio momento di gloria, sono caduta. Non mi sono rotta i pantaloni, che sarebbe stata la massima onorificenza (dannazione), ma mi sono sbucciata un ginocchio. Sì, sbucciato, con un po’ di sangue perfino. Per me che ho un disperato bisogno di muovermi, la sbucciatura al ginocchio è una medaglia al valore, un trofeo di guerra, un riconoscimento importante. Una nobile ferita, la mia sbucciatura al ginocchio, che ho dedicato ai quei bei tempi  in cui cadere, sporcarsi nella terra, rotolarsi nel fango e nello sporco, erano passatempi prediletti. Sono caduta. Sono davvero orgogliosa di me.

Di tarantole e pipistrelli

Devono essere capitati su questo blog digitando su google: “sognato che venivo mangiata da una tarantola”. Un po’ la cosa mi inquieta e mi domando che blog sia mai questo, che la gente ci capita dentro cercando risposte confortanti ai propri incubi notturni.

Ma poi mi sono ricreduta. Del resto, che cosa si può mai pretendere – mi sono detta – da un blog la cui titolare stanotte ha sognato che aveva la casa infestata da pipistrelli grossi come cani.