La lista dei desideri

piccolo emblema di felicità futura

piccolo emblema di felicità futura

Dopo ore e ore di studio e ripetizioni assidui, ore sottratte indebitamente al rigoroso dovere scolastico, la nostra si regala un piccolo momento di pausa per fare un elenco delle esplosioni di libertà che costelleranno la sua nuova vita PhD-free che comincerà tra poco, molto poco, tre giorni:

– fine settimana fuori casa: visite a città del Lazio, paesini nei dintorni, domeniche passate mollemente a ciondolare in qualche quartiere sconosciuto della nostra amata citta;

– più mostre, più musei, più parchi, più passeggiate; più installazioni, più festival musicali, più concerti;

– più discoteca! Swing e Lindy Hop preferibilmente;

– più cose nuove mai fatte prima: una lezione di arrampicata, una domenica primaverile a camminare in montagna, un corso di fotografia, uno di lindy hop e uno di tip tap (dovevo fare la ballerina);

– più weekend con gli amici: cene a casa, uscite serali, cinema insieme e più weekend con le amiche: shopping, aperitivi, e bevute di birra serali.

– più creatività: arredare questa casa, sviluppare un po’ di foto da attaccare sulle pareti, comprare delle cornici, imparare a usare il trapano,fare più foto, f recuperare la scatola del craft che è rimasta nella palude veneta.

– Leggere più libri: italiani, di inchiesta,  i francesi, quei libri che ho sempre messo da parte perché ‘non c’entravano con la tesi’.

– Oziare: oziare in casa, in pigiama, distesa a letto, specialmente se è domenica mattina.

Here comes the sun (notate il luminoso ottimismo di questo titolo che invece di soffermarsi sull’angoscia esistenziale del presente, prefigura un futuro vicino di liberazione e spensieratezza)

Discussioni di alto livello tra me e la bottiglietta d'acqua

Discussioni di alto livello tra me e la bottiglietta d’acqua

– Il giorno della discussione è minacciosamente vicino, alla soglia direi, foriero dei più terribili incubi notturni, notti insonni, tachicardie insopportabili, attacchi d’ansia e senso di morte e devastazione universale. L’avvicinamento del giorno temuto è stato accompagnato da studio folle ed agitato, ma soprattutto da picchi di nervosismo e angoscia esistenziale, trovando infine una definitiva valvola di sfogo nello studio della preside, una mattina, dove, con occhi colmi di lacrime e singhiozzi mal trattenuti, la dottoranda fiammiferaia ha dato sfogo al peggio di se stessa, terminando la sua disperata condanna a morte con un: “Non ce la faccio. Dammi due giorni di permesso per studiare.” Giorni che le sono stati accordati con forti abbracci, incoraggiamenti e consolazione e soprattutto con un accomodante e cauto: “Stai tranquilla,” che come un mantra, colleghe, preside e vicepreside tutte mi stanno ripetendo, con voce sottile e suadenti. Temono un esaurimento nervoso.

Non sanno che sono sempre così.

– la dottoranda fiammiferaia è molto in ansia, soprattutto ha paura che l’emozione la rincoglionisca e non sappia più nè parlare inglese nè ricordare cosa ha scritto sulla tesi. Però si è presa un meraviglioso vestito, un cappottino rétro, e soprattutto un cappello a bombetta che, una volta terminato l’incubo, farà innamorare tutta Venezia.

– La dottoranda fiammiferaia si è anche fatta un regalo di dottorato. Per sancire la libertà appena conquistata, nonostante l’esito dell discussione, la nostra andrà a sciare, un’attività che la riporta indietro nostalgicamente ai ricordi di infanzia e che ha intensamente desiderato per molti molti anni.

– La dottoranda fiammiferaia ha una lista di cose che vorrà fare quando sarà finalmente libera, quando lavorare solo a scuola le sembrerà pura vacanza, quando i weekend non dovrà stare alla scrivania a studiare a scrivere. Spera tanto che non siano solo illusioni.

La storia della smartbox

La storia della smartbox racconta che due natali fa lui (gli daremo anche un nome, datemi tempo) – cosciente del suo amore smodato ma represso per i viaggi, del suo bisogno di evasione dal ritmo monotono della vita di tutti giorni e  del suo desiderio di liberarsi di tanto in tanto del ruolo fortemente rigoroso e controllato che il suo lavoro e il suo temperamento le impongono – le regalò una smartbox – Fuga dalla città. Tale regalo fu ricevuto con somma sorpresa, grande entusiasmo e finanche commozione, quella commozione che solo una persona che ti conosce fin nel profondo del cuore può suscitare.

Dopodiché lei attese. Attese che suddetta scatola si trasformasse magicamente in un’effettiva notte (un’unica notte) trascorsa fuori casa. Attese che il buono, perché di ciò si tratta, si convertisse in regalo. Attese che il viaggio in potenza si tramutasse in un viaggio reale. Ciò non avvenne mai. Il regalo era quello. La smartbox.

La promessa di un viaggio, ma senza il viaggio.

La nostra eroina capì che l’unico modo per impedire che la scatolina si trasformasse in un vaso di pandora colmo di malanimo e cattivi sentimenti, era quello di organizzare lei stessa il viaggio. E così fece, tralasciando ogni seppur minimo residuo di romanticismo rimasto. Dopo due giorni le annullarono il weekend. La struttura era già piena, il posto era quello sbagliato, i tempi erano mal calcolati.

Ora è passato un anno e mezzo. La smartbox scade ad aprile. Reduci da un mese piuttosto faticoso e da sbalzi di umore non sempre facilmente gestibili, i due hanno deciso di riprovarci. Domani partono.

Lei ha la febbre da tre giornii. E dicono che domani nevicherà in tutto il centro Italia.

Partono ugualmente. Del resto lei ama l’avventura e di questo piccolo viaggio ne ha molto bisogno.

Attendiamo

– La discussione della tesi sarà il 23 febbraio, manca meno di un mese. Mi siedo a rileggere e schematizzare la tesi un giorno sì e tre no. Quando riesco anche a ripetere, di solito mi lancio nelle mie disquisizioni intellettuali indirizzate alla bottiglietta d’acqua, allora è bellissimo, io e lei ci intendiamo a perfezione, lei mi ascolta ammirata, rimane senza parole, non mi contesta nulla, e io sono bravissima, convincente e fluida nel linguaggio, sorridente, sicura. Peccato che i membri della commissione non sono bottigliette d’acqua. Uno di questi membri ancora la deve ricevere la mia tesi. Sapete com’è, uno la spedisce a dicembre per stare tranquillo con i tempi; fa una raccomandata con ricevuta di ritorno per stare ancora più tranquillo. Ma la tesi non arriva. La tesi torna indietro. La tesi è conservata in un ufficio postale di Roma non bene identificato, che la dottoranda fiammiferaia dovrà con le sue forze rintracciare per recuperare la tesi scomparsa. Intanto spedisce una seconda tesi alla commissaria preoccupata, il tempo stringe, pacco che dovrebbe essere arrivato ieri, ma ancora la nostra non ne ha ricevuto notizia.

– Finalmente sono riprese le lezioni di swing, molta fatica a muoversi la sera con la macchina, ma poi la lezione provoca grandi picchi di esaltazione, concentrazione positiva, affiatamento e divertimento. Tale benessere da corpo in movimento – da affiancarsi al benessere della palestra, da considerarsi però come surrogato sottocosto,  un per ora questo passa il convento ma c’è sicuramente di meglio – genera nella sottoscritta intense riflessioni sulla mancata attenzione ricevuta da piccola sulle attitudini da sviluppare, sui sogni da realizzare, sulle opportunità da offrire. Avrei potuto fare la ballerina, se solo qualcuno mi avesse indicato la via. Ho passato troppi pomeriggi a casa ad annoiarmi.

Il meccanico me l’aveva detto che ero cresciuta da autodidatta,

– A proposito di meccanico, l’officina prosegue con grandi scossoni tellurici, baratri che minacciano il cammino, selve oscure e terrorizzanti. Dicono che bisogna passarci attraverso. Dicono che devi lasciare che l’onda ti investa. Dicono che bisogna attendere.

Attendiamo.

(Quasi) finita la fase della piccola dottoranda fiammiferaia inizia ora quella del diario intimistico. Ovvero, agonizzo ma proseguo.

Non sento il Natale e non sento neppure la fine dell’anno. Mi interesso di blog di mamme italiane e americane che nei loro blog celebrano, ringraziano, ironizzano sulla bellezza della loro vita. Mi colpiscono, perché penso che dopotutto la vita con figli sia una vita alquanto ripetitiva monotona spossante e che sia difficile scriverne bene, in modo commovente, divertente, come se ogni momento fosse unico. E’ un linguaggio che mi manca. La lingua della celebrazione, del ringraziamento, della contentezza è una lingua che non mi appartiene. Non ne sono capace, non mi viene. Leggo i blog di queste mamme perché tento di assimilarne la semantica. Sono più naturalmente portata al reportage di sfiga dopo sfiga, alla cronistoria di paperino, alla lamentela travestita da barzelletta. Alla ripetizione in forme sempre nuove e diverse del mio senso di inadeguatezza alla vita.

Quest’anno, questo 2014 che termina oggi qui a Roma, in questo freddo glaciale, a casa nostra, noi due, con una cenetta a lume di candela, ha portato molte novità, e la maggior parte di esse non erano nemmeno cercate. Ci siamo sposati un tardo pomeriggio di luglio sotto una luce di mezza estate limpida e bagnata di sole. Siamo partiti per un viaggio lungo e avventuroso come li sogno io. E’ arrivata una convocazione di ruolo per lui che nessuno si aspettava. Abbiamo comprato casa. E il 23 dicembre, mentre spedivo copia della tesi ai due commissari per la discussione orale, ecco che mi telefonano altrettanto inaspettatamente per una convocazione di ruolo effettiva dal prossimo anno.

Cosa ci succede? Dove sono andati i muri gocciolanti, la cucina sbilenca, la precarietà perenne, lo stipendio part-time?

Non sento il Natale, e questo capodanno lo festeggeremo romanticamente in due, se non altro per l’influenza. Però allo scoccare della mezzanotte vorrei ripensare a tutto ciò che questo anno ci ha regalato e brindare con una scintilla di felicità in più, sperando di imparare presto a comunicarla su queste pagine.

Tento di trovare degli spazi di libertà in questo meccanico avanzare dei giorni

Sono in balcone. Ho trentacinque anni, un paio di occhiali verdi, un pigiama addosso e un cappotto appoggiato sopra perché è novembre e ho appena mangiato, la sera fa un po’ freddo. Sto fumando una sigaretta. Non mi succede mai, perché non le compro. E’ la mia salvezza, se le comprassi, probabilmente fumerei come una ciminiera. Ma questa volta ho una sigaretta in borsa. L’ho scroccata l’altra sera a una persona che nemmeno conosco, a una cena tra persone che ho visto due volte in due anni, ma poi non l’ho fumata più, ed è rimasta nella borsa. Allora la fumo ora che sono a casa, dopo cena, dopo avere steso i panni. Sono in balcone. E’ buio e c’è un gran silenzio. E’ il silenzio di Roma, ovattato da un lontano rumore di macchine che passano. Dal mio balcone vedo altri balconi, altre finestre, altre case. Ma non c’è nessuno fuori. Solo qualche luce natalizia di chi già pensa al natale. Cinque minuti di nulla. Il tempo di una sigaretta. Noto i dettagli, mi fermo. Mi accorgo che non lo faccio mai. Non penso più. Non mi fermo mai. La mia testa è piena di pensieri meccanici, cose da fare, la spesa, il pranzo, le bollette, gli scatoloni. A tesi finita, gli spazi vuoti si sono riempiti di futili attività necessarie correlate a pensieri altrettanto futili. A tesi finita, gli spazi vuoti si sono riempiti di altrettanto vuoto. Un vuoto necessario, il vuoto della sussistenza. Mi accorgo che è possibile riempire gli spazi di sole transazioni economiche. Il cibo, i mobili, gli assorbenti, i vestiti, le scarpe. E così, comprando, uno passa la vita.

Tento di trovare degli spazi di libertà in questo meccanico avanzare dei giorni, tento di sfuggire alla logica della compravendita, ai legacci della casa, alla meccanicità del lavoro. Tento di sfuggirne facendo le cose più in fretta, di più ogni giorno, comprimendole in ritmi serrati, routine rigorose, certa che a un certo punto avrò finito, avrò fatto tutto. Non capita mai. Non finisco mai. Vorrei entrare in casa e pensare, che bella. Non lo è mai. E’ sempre tutto in giro, tutto sporco, tutto in disordine. Penso con angoscia al giorno in cui cambieremo casa, manca poco, forse solo una settimana, nel timore che anche la casa nuova sarà un luogo inospitale, disorganizzato, ingestibile. Così mi sento io.

Cerco spazi, spazi in cui le parole possano ricominciare a fluire, a uscire da me. Pensieri, pensieri che escano dallo schema del devo comprare il latte.

Dove sono caduta?

Ultimi rigurgiti accademici prima del tuffo nel mondo del design

Un ultimo weekend trascorso a Venezia e nella palude veneta, ha portato con sè:

– la visione strappalacrime di Frozen, nuovo cartone della Disney, dove due sorelle si perdono e poi si ritrovano, dove le emozioni e la paura creano voragini difficilmente ricomponibili, dove il principe azzurro non esiste, dove il primo amore è piuttosto un secondo amore, e dove ovviamente alla fine vissero tutti felici e contenti, ma questo è la parte Disney che non hanno ancora modificato. Vedere questo cartone con mia sorella, mia mamma e i miei nipoti ha provocato nodi alla gola e occhi gonfi di lacrime che sono passati inosservati grazie alle imprese canore della nipotina di cinque anni che correva per i corridoi cantando tutte le canzoni del cartone a memoria e a momenti anche Shakira;

– La consegna della tesi, completa di firme del tutor e del coordinatore di dottorato, in numero di tre copie alla segreteria studenti, al mio tutor e al mio professore di laurea, mentore super partes di questo dottorato. Il fatto che questo momento topico della mia vita, la consegna di un lavoro di quattro anni, non abbia portato con sé alcun senso di piena soddisfazione, entusiasmo, eccitazione, o per lo meno orgoglio, combinato al fatto che – cominciato quel giochino su fb in cui devo scrivere tre pensieri positivi al giorno per 5 giorni – annego in una difficoltà indicibile nel formulare detti pensieri positivi, nonostante la mia vita sia in questo momento grondante di cose belle, mi fa riflettere su questa assenza di lessico nel mio cervello e sulla cronica mancanza di colori vivaci nella gamma spezzata delle mie emozioni.

Tornata a Roma, mi ha investito La Fase dei Lavori e La Fase dell’Acquisto di Mobili, e con sé grande senso di inefficienza, incompetenza, e incapacità. Manco lo dovessi rifare io il bagno. Nonostante ciò, un intero sabato trascorso a Ikea a scegliere la cucina è stata esperienza intensamente istruttiva, comica a momenti e foriera di grandi idee. Complice il mio acquisto e lettura compulsivi di CasaFacile da un paio di mesi, come al solito nel mio modo ossessivo e patologico mi sono lanciata nel mondo del décor, dell’arredamento e del fai-da-te. Tutto immaginario. Trascorro ore a sfogliare riviste e a immaginare acquisti e arredi che difficilmente potremo mai permetterci. Tuttavia, è un’attività nuova e che piacevolmente riempie il tempo che per ora non sto trascorrendo a studiarmi e rivedermi la tesi. Cosa questa che ricomincerò febbrilmente a fare non appena i livelli di ansia raggiungeranno vette e picchi non facilmente smaltibili.

A brand new day

Davanti a un giovane notaio con la battuta pronta e disinvolto nella sua più completa onnipotenza, un’ agente di banca gentile ma un po’ pasticciona, tre voluminosi assegni nascosti gelosamente in borsetta; seduti accanto alla giovane coppia di venditori a cui abbiamo praticamente dichiarato il nostro amore eterno e indefesso (“va bene, ci state vendendo la vostra casa, ma a parte questo, volete diventare nostri amici? ci piacete tanto, ci vediamo ancora? e a proposito, non abbiamo soldi per arredarla questa casa, vi prego, lasciateci tutto quello che c’è dentro…”), abbiamo finalmente venduto le nostre anime alla banca, che le custodirà gelosamente per trent’anni concedendoci in cambio la generosa facoltà di alloggiare in questa casa scelta da noi, ma comprata da loro, nella quale vivremo per qualche anno dormendo per terra, cucinando su un fornelletto da campeggio e riscaldandoci al calore delle candele che ci serviranno per illuminarla. A meno che Ikea non abbia pietà di noi e avvii qualche promozione su cucine e camere da letto.

Abbiamo finito tutti i soldi.

Nel giro di un mese dobbiamo fare quel poco di lavori che ci sono, traslocare e trasferirci. Lasciamo questa casetta in cui siamo stati per cinque anni, tra muri gocciolanti, cucine unte e cadenti, letti di quarta mano, mobili degli anni cinquanta e, negli ultimi due mesi, una serranda rotta. Non c’è stato feng shui che tenesse. Eppure, ci mancheranno: le finestre enormi e la tanta tanta luce che ne entrava; il balcone lunghissimo; il senso di libertà della nostra vita senza contratti, senza residenza, senza nomi, senza definizioni precise; i vicini di pianerottolo; la amministratrice logorroica ma simpatica; la palestra davanti casa; la strada silenziosa ma vicinissima a supermercati, negozi, fermate di metro e bus.

Ci allontaniamo un po’ e non avremo l’ascensore. Ci vorrà un po’ per abituarci, come per tutti i cambiamenti, e ci inoltriamo silenziosi in questa dimensione un po’ nuova per noi, dove le cose prendono forma e hanno un nome, dove per realizzare i desideri bisogna faticare molto, dove la felicità ripaga la fatica, dove le cose pur prendendo un nome sono in continuo movimento, e sempre nuove.

La tesi termina

Mi soffermo spesso a riflettere sul da farsi.

La tesi termina. Sgocciola a piccole dosi le ultime cose da fare. Minime correzioni. Un rientro eccessivo, un plurale poco consono, una frase superflua. Centellino il tutto. Un giorno riguardo, un giorno mi riposo, non accendo nemmeno il computer. Mi convinco che quel che è fatto è fatto. E’ finita. Sorvolo consapevole sulle lacune. Alcune, poche, sono presenti. Mi riprometto di schematizzare, ripetere, sottolineare, rileggere. Più tardi. Non ora.

Porto tutto a stampare. E’ voluminosa, imponente, ne vado orgogliosa. Lunedì a Venezia, firme di tutor e coordinatore. Poi va consegnata.

La tesi termina.

E io mi ritrovo a chiedere di me. A rendere conto. A ritornare col pensiero, alle ore passate al computer, quando la tesi si scriveva da sola. E a domandarmi cosa farò di quelle ore tra poco, quando non dovrò più nemmeno schematizzare, ripetere, sottolineare. Rivado a quei momenti e cerco di formulare in misura esatta la percentuale di stress che quel tipo di lavoro mi suscitava, e a fare dei calcoli su quello stress, a chiedermi quanto abbia voglia di sopportarlo, in futuro, uno stress simile.

E non riuscire a decidere. Non riuscire a decifrare, a distinguere la percentuale di benessere, soddisfazione, passione, dalla percentuale di angoscia, ansia, insofferenza. a volte sbilanciarmi, pensando, dopo tutto, ma chi stava meglio di me, a casa sua, a scrivere. Ed è vero che sono arrivata al termine perfettamente in tempo, con calma, senza corse finali, e che già che mi avanzava un pochino di tempo, mi sono anche sposata, organizzando un matrimonio non certo in grande stile, e non perfetto, ma felice. E sono partita, senza farmi mancare nulla, la luna di miele, sedici giorni, in California. E la tesi ora è pronta, le sue belle tre copie stampate, sono di là. Pronte. E forse la vita non è stata così male in questi anni.

E ora oltre a consegnare la tesi, compro casa. A Roma. E seguo l’acquisto, e accendo un mutuo. E riesco a fare tutto. Nonostante la tesi, la consegna, il termine. Forse riesco a fare tutto, forse.

Ma non lo so. Non se sono sicura.

La tesi termina. E io non lo so bene cosa farò.

Questi ultimi giorni di lavoro sulla tesi li affronto a colpi di birra

Questi ultimi giorni di lavoro sulla tesi li affronto a colpi di birra. Oramai il bicchiere semivuoto è diventato il mio compagno di riscrittura, correzione, impaginazione, ripensamento, rielaborazione. Manca poco. Tra quindici giorni devo consegnare una versione definitiva in pdf per un’ultima rilettura del professore. Poi ho altri quindici giorni per la consegna definitiva. Ho tanto lavoro di scuola, e il poco tempo che mi rimane da dedicare alla tesi lo trascorro ebbra.

Bene così.

Lunedì scorso sono stata a ricevimento dal prof. Mi dice, sai che c’era Jacobson oggi a Venezia? Sai che ha partecipato con noi al capodanno ebraico? sai che ha pubblicato un libro nuovo? ce l’ho a casa, me l’ha autografato.

Grazie prof della considerazione che hai per me dopo quattro anni di lavoro insieme. Una copia firmata anche per me ci potevi pure pensare. Eppure lo so che mi vuoi bene. E’ solo che non hai capito quanto ci tengo. Mi hai fatto la domanda fatale che mi domandano tutti i venerdì in officina: “Ma sei felice di questo lavoro? sei soddisfatta della tua tesi? Sei felice delle belle notizie che ci dai?” E lì ho capito che tu, di me, non hai capito niente. E mi rendo conto che sia difficile. Ho una certa difficoltà a esprimere sentimenti quali: gioia, affetto, soddisfazione, felicità. Non rientrano nella mia gamma di colori. Però, se un pochino mi osservavi, quelle volte che ci siamo visti, caro professore, ti saresti accorto di uno sguardo un po’ più brillante, di un sorriso mezzo celato, di un tono di voce imbarazzato ma orgoglioso.

Ma non importa. Con la birra e tanta pazienza si risolve tutto.