Sempre quella volta che stavo in erasmus ed ero inesperta e sempre ubriaca.

Abitavo tra gli altri con una coinquilina irlandese che sembrava appena uscita dal film Singles. Per mesi io e i miei inquilini ci siamo lambiccati con le ipotesi più assurde sulla vita privata di questa misteriosa fascinosa avvocato in carriera proveniente da Derry: ex-militante dell’IRA? ricca ereditiera? orfana di qualche passata tragedia?

Comunque. Non è di Deborah che vi voglio parlare stasera. Vi voglio parlare di Eoin, l’amico intellettuale di Deborah. Eoin: biondo, occhialetto di tartaruga, anello d’argento al dito. Eoin, professione drammaturgo e regista. Eoin, giovane promessa del teatro. Eoin, già diverse pièce teatrali alle spalle. Eoin, pure bello. Non bello nel senso tradizionale del termine. Bello nei suoi modi ovattati e curiosi, bello nel suo fare silenzioso e osservatore, bello nella sua voce suadente e nell’accento di Dublino (che, a Cork vuol dire tanto). Deborah mi parlava sempre di Eoin, lo devi conoscere, ti piacerà tantissimo, lui si intende di letteratura, lui ti può aiutare con la tesina su Beckett, vi capirete tantissimo.

Il giorno che mi fa conoscere Eoin mi porta direttamente a casa sua. Io, a malapena mi destreggio con la loro lingua, loro più grandi di me, più adulti, più consapevoli. Deborah mi presenta. Questo è stato il dialogo:

Deborah: “Questa è la mia coinquilina. E’ molto sofisticata. Sa tutto di letteratura. E’ una vera appassionata. Com’è carina, la vedi? Ma è anche intelligente, sai”.

io: “ehm… ciao”

Eoin: “Piacere di conoscerti”

Deborah: ” E’ anche una vera appassionata di Beckett. Deve scrivere una tesina su Beckett. La aiuteresti?”

Eoin: “Ho questo poster di una rappresentazione di Beckett che ho messo in scena un paio di anni fa. Lo vuoi? tieni, te lo regalo”.

Io: “Ehm. Grazie mille.”

Eoin: “Sai. Sarei interessato a leggere un po’ di letteratura italiana contemporanea. Non ne conosco molta. Mi aiuteresti? Cosa mi consigli?”

io: “…” (vuoto)

Eoin: “Qualche nome… italiana…”

io: “…” (vuoto più totale: italia.. contemporaneo… ne ho letto uno un mese fa…come si chiamava? come?…. è…buio….qui…dentro….)

io:”…” (buttati, inventa, inventa un nome, non lo saprà mai, inventa!)

io: “… ehm…Pirandello?”

Eoin: “… contemporanea”.

io: “…” (voglio andare a casa)

Cosa avrei potuto dire allora? vediamo….Avrei potuto dire: Baricco, De Carlo. Li conoscevo, li avevo letti. Lo so non è proprio il massimo, ma sarebbero pur stati due nomi. Eco! Eco lo avevo letto, Eco lo sapevo. Neppure Eco mi è venuto in mente.

Ora ditemi voi, perché io sto qui a raccontarvi dell’Irlanda mentre dovrei essere su word a scrivere quella presentazione orale che ho per giovedì. E intanto il tempo passa, le giornate si allungano, le notti si accorciano, le rughe si scavano, i caffè si trangugiano senza sosta, e si fanno bucati che nemmeno se mettevo il maglione grigio nel tritacarne non mi usciva così.

Che décolleté esuberante! (così accorrete in migliaia a leggere questo post)

L’altro giorno a scuola, durante una mia lezione, in prima media, una bambina si è addormentata. Poi mi ha detto: non stavo dormendo. Stavo pensando. Era tutta rintronata, con due enormi strisce del braccio sulla guancia. Poverina, in effetti tra un po’ mi stavo addormentando anch’io.

Oggi in dipartimento nella città acquatica, ho incontrato una professoressa, con la quale giovedì ho una presentazione orale (cioè le mostro i denti). Mentre mi parlava e io cercavo di fare uno sguardo intelligente, ma in realtà me ne veniva uno da pesce lesso, mi si è staccato il reggiseno, sdeng! Ma non è stata la procacità del contenuto a far slacciare il contenitore.  Nel qual caso sarei stata orgogliosa di cotanta esuberanza.Ma no. E’ stata la conferma ulteriore dell’esistenza di uno Statuto di Non Credibilità, statuto che sancisce il regolamento di un circolo molto privato al  quale, apparentemente, sono tesserata fin dalla nascita.

Insomma, anche quando mi ci impegno a fare la persona seria, ecco che Pip fa la sua comparsa con i suoi scherzetti.

Sarà che a volte mi sembra di portarmi appresso tutta la tristezza del mondo.

Scrivi pure quello che ti senti, non ti preoccupare, non ti diamo il voto.

Continua la saga dei semiseri seminari, che vede protagonista una dottoranda capace di rendere tragicomica anche la più banale, scontata, comune scena di routine accademica.

La settimana scorsa prendo l’oramai odiatissimo treno nuovamente circondata da mentine, fazzolettini, antalgil e borocilline. Tutto inutile, visto che questa volta il problema non era la febbre o il raffreddore ma una persistente tosse che neanche una vecchia catarrosa di novant’anni. Non vi dico lo spettacolo che ho dato nell’inusuale silenzio del mio vagone, con me che cercavo di sopprimere la tosse, gli occhi che lacrimavano, il viso paonazzo e la gente che si scambiava sguardi furtivi pensando, forse dovremo chiamare un dottore, questa soffoca, questa muore.

Comunque. Venerdì vado alla prima lezione di un seminario di tedesco. Perchè, tu conosci il tedesco? no (anche se l’ho studiato negli anni della scuola, ma chi ricorda più nulla ormai). Ma è l’unico seminario che fanno di venerdì, quindi l’unico a cui posso partecipare. E poi, c’è un argomento che mi può essere utile. Arrivo nello studio della prof. C’ero solo io. Nessun altro partecipa a questo seminario. Solo io. Io e lei, sole. Io e lei. E lei è quella che mi ha contestato alla riunione di passaggio, sì lei, quella che ha distrutto progetto e autostima nel giro di pochi ma lunghissimi minuti, sì, miei affezionati lettori, vi ricordate.

Per fortuna che nonostante le fiamme che uscivano dalle sue fauci durante suddetta riunione, la prof in questione è in realtà una persona molto disponibile, gentile, e comprensiva. Ma saperlo non serve a niente.

Io ho paura.

Siccome questo seminario sarà solo per me, allora la prof si preoccupa di tagliarlo su misura per le mie necessità e conoscenze. Dunque, sedute sul divanetto del suo enorme studio che guarda sul canale della Giudecca, mi chiede: dunque, mi dica tutte le letture che ha fatto su tale argomento, così posso capire bene da dove cominciare. Mi dica.

Mi dica. In un secondo eccomi catapultata su un banco di scuola media, con la sola differenza che io alle medie ero sempre preparata, non mi è mai capitata una cosa del genere. E allora, eccomi catapultata su un banco di scuola media, nel corpo di un altro. Uno che non sa nulla. Un idiota. Nulla. E’ un anno e mezzo che leggo cose su quel preciso argomento, ma che importa. Tabula rasa, silenzio totale, sudore lungo la schiena, macchie rosse sul collo. Scena muta.

Ma non si preoccupi, non è un’interrogazione, non le dò il voto… si metta tranquilla, tranquilla… si prenda il tempo che le serve…

Donna trentaduenne, intraprendente, sicura, positiva, con un brillante futuro da accademica davanti a sè. Io. Non sono riuscita a spiccicare una parola. Mi faccio ancora dire: non le dò il voto (frase che uso con i miei studenti di prima media).

(Poi, non vi preoccupate, mi sono un po’ sciolta, qualcosa mi è tornato in mente.)

Ma il momento più bello è stato quando la professoressa mi ha detto: ma perché si sente sempre in colpa? Si sente sempre in colpa, perché? le fa male alla salute. Stia tranquilla.

Allora ho capito che fanno bene a chiamarmi Pip, che è il diminutivo di mezza-pippetta.

E voi? voi me lo date il voto?

Respiro di Madre sul Collo.

Vi ringrazio se siete passati a visitare questo blog, nonostante io sappia perfettamente che l’avete fatto unicamente indotti da miei macchinosi e senza scrupoli stratagemmi degni della peggiore osteria di Caracas. Ehm. Volevo dire, degni della peggior ladra di visite di blog mai esistita prima.

Però ogni tanto potreste anche lasciarmi un segno della vostra fulminea presenza. Tanto per non farmi sentir sola. Qui su wordpress sono quasi certa che il mio blog sia destinato a soccombere, ingoiato dall’oblio.

Comunque volevo raccontarvi che circa un mese fa mia sorella venne a trovarmi qui a casa a Roma, accompagnata dall’allegra ciurma familiare. Non sto qui a spiegarvi le manovre per rendere questa casa presentabile, fatto sta che dopo un paio di giorni che era qui, ho avuto la brillante idea di chiederle:

“Che ne dici di questa casa? è tanto brutta come sembra a me? Che dici?” (traduzione: Cerco comprensione e solidarietà, la casa è un po’ brutta ma mi ci impegno tanto a dargli un tocco di originalità e bellezza, l’hai notato? Le porte vecchie e sporche, le finestre diroccate, gli angolini bui che ti precipitano direttamente in un’altra dimensione, le pareti umide e ammuffite, non si notano, vero? Voi non guardate queste cose vero? è dunque una casa normale, vero?)

questa è stata la risposta di mia sorella:

“Beh, sai, sicuramente è possibile vedere che qualcosa hai sistemato. però… però… beh, ci sono delle cose, che vedi, NON puoi NON fare! (costruzione sintattica direttamente ereditata dal focolare familiare d’origine). Prendi ad esempio ( i fornelli? i pavimenti? la tavola?) LE MATTONELLE DEL BAGNO! Sono tutte opache. Come puoi lasciarle così? ma io ti dico un segreto: un panno asciutto e un po’ d’alcool, una passata e via! tutto lucido e pulito! Prendi ad esempio (i piatti da lavare? la vasca? i letti?) I TERMOSIFONI! è un attimo! come puoi non spolverarli?”

Sono sicura, ci deve essere stata un’interferenza di identità, non poteva essere mia sorella che mi parlava, quella era mia madre!

Io mi sono molto offesa e risentita e ho lasciato cadere il discorso e soprattutto mi sono morsa la lingua ripetendomi “così ti impari a chiedere conforto e rassicurazione domestica alle persone”. Però, una sera, mentre tutti dormivano, mi sono recata silenziosamente in punta di piedi in bagno e, alcool e panno asciutto alla mano, mi sono messa a lucidare, lucidare, lucidare le mattonelle….ma che passata e via! ci vogliono ore e ore di olio di gomito! Poi, sempre nel cuore della notte, ho fatto anche di peggio, con un vecchio spazzolino da denti mi sono messa a spolverare i termosifoni, righina per righina…

Io credo che questa sia una malattia il cui nome è: Respiro di Madre sul Collo.

Io comunque a quest’ora del pomeriggio dovrei stare scrivendo una relazione sul rapporto tra criminalità e letteratura nell’Irlanda del diciottesimo secolo e non raccontarvi il mio rapporto curiosamente recentemente malato con le faccende domestiche…

Forse è proprio per sfuggire alla scrittura di codesta relazione che in ordine cronologico nell’ultima ora ho: preparato il té, lucidato i rubinetti del bagno con un panno asciutto e l’alcool, e scritto questo post.

Qui dentro c’è l’eco. Comunque il titolo è un altro. Il titolo è: Complicazioni della vita accademica.

La parola chiave di questo secondo anno di dottorato è: pubblicazioni. C’è una specie di frenesia isterica riguardo questo argomento, quando conosci qualcuno in dipartimento la prima domanda che gli fai è: hai pubblicato? Se sono io a fare questa domanda, il corollario è: come si fa?

Sono circondata da sciami di dottorandi pubblicatori: quel mio collega di cinema alla fine del primo anno aveva già pubblicato. Un articolo? un capitolo? no. Un libro, un libro intero scritto e firmato da lui. Quell’altro dottorato di tedesco ogni anno sforna decine di articoli pubblicati in diverse riviste italiane e tedesche. In lingua tedesca, ovvio. Quell’altra collega di comparatistica è al suo secondo dottorato e ha appena pubblicato un libro anche lei.

Poi ci sono io.

Ci sono io che verso settembre vado dal mio tutor e gli dico: “Io…ecco, veramente io… ma non lo so, ehm, forse, anzi sicuramente è meglio di no, ma diciamo forse forse io, solo per imparare come si fa, eh, non avrei mai e poi mai la presunzione di… ma.. ecco…io… avrei un articolo!”. Poi gli scrivo una mail che si intitola “Ambizioni premature”, che è come darsi subito una zappa sui piedi, in cui gli invio suddetto articolo, e poi basta. Basta, finito. L’articolo è ancora lì nascosto nel mio computer. Tanta è stata l’angoscia di addirittura inviarlo al mio professore, che mi si è esaurita la scorta di coraggio per inviarlo a qualche rivista. Diciamo che ora, che sono passati quattro mesi, sto recuperando le forze perdute, e posso pensare di rimettermi a correggere quelle parti che il professore mi ha consigliato di riguardare e poi fare il grande passo nel vuoto.

Ora vi dico un’altra cosa. Segreta. Pare, ma sembrerebbe quasi certo ormai, che il mio autore, quello su cui un giorno dovrò scrivere la mia tesi di dottorato, venga in dipartimento verso aprile, per un convegno di scrittori che la mia facoltà organizza ogni anno. Ora, un dottorando normale cosa proverebbe? grande emozione e gioia, orgoglio, entusiasmo nell’organizzare un’intervista, lo direbbe a tutti quelli che incontra. Direbbe: “io e il mio professore stiamo organizzando….”, oppure “ebbene sì, è sicuro, John viene a trovarci” (non si chiama John, è un nome fittizio, non ve lo dico come si chiama il mio autore) oppure “io e il professore stiamo organizzando l’accoglienza, sì ieri ci ho parlato al telefono, del resto, sapete, è il mio autore”. Se voi foste un dottorando normale, al massimo un tantino cagacazzo, direste così.

Io no. Io da quando ho avuto questa tragica notizia, non dormo la notte. Attendo con orrore e disperazione quel momento. Mi aggiro per il dipartimento nascondendomi dietro le colonne, sperando che nessuno mi chieda nulla. Prego dio ogni giorno di mandargli, che so, una febbre, una diarrea, un’influenza in quei giorni così che non possa venire. Impreco pensando, ma con tutti gli autori che dovevano chiamare, proprio il mio! E proprio di sì doveva dire! Spero ogni giorno che il mio professore mi dica: “Ovviamente lei non è pronta per parlare con il nostro eccelso autore, si tenga nascosta, non dica a nessuno che lei lo sta studiando, non si faccia coinvolgere se vuole evitare brutte figure”. Ah come mi sentirei umiliata e sollevata. Allora sì che girerei per il dipartimento a testa alta, e felice!

Ecco, io mi sto avvicinando all’incontro con il mio autore con questo stato d’animo, augurandogli di tutto cuore una diarrea.

Divagazioni sparse su ritorni a scuola, cinepanettoni, case e libercoli e accenno di incoraggiamento e sollecitazione all’ottimismo: va bene.

Oggi è ricominciata la scuola. Va bene.

Le mie colleghe hanno detto: “che bello il cinepanettone di quest’anno”. Poi siccome le guardavo hanno anche detto: “una stronzata eh, però, tanto carino. E poi Cristian De Sica è proprio forte”. Al che c’è stato un boato di consensi: “A me Cristian De Sica me fa ‘mmazzà darride! Quante me piace a me!”. Va bene.

Allora ho capito e per l’ennesima volta mi sono ripetuta: mi raccomando te devi sta’ zitta, zitta devi stare a scuola, devi parlà il meno possibile. Sì, parlà, perchè quando sto a scuola, un po’ debbo parlà anch’io così. Va bene.

Correzione compiti delle vacanze, nemmeno ve lo sto a di’ (di’). Prof! io li ho fatti tutti ma li ho lasciati in montagna! Prof! io ho fatto stamattina lo zaino, e non so, pensavo di non avere inglese. Prof! ma perché c’era anche questa pagina da fare? Prof! io li ho fatti, eccoli! (mostrandomi una pagina di quaderno di sei mesi fa). Prof! ecco gli esercizi, è questo, no, è questo, no, è questo, ma dov’è? non li trovo più, ci devono essere da qualche parte (se non lo sai te!) Va bene.

Tornare a Roma è stato bellissimo (sì il piano di passare le vacanze natalizie sola e barricata in casa è abortito miseramente). Tornare in un posto, che, nonostante tutto, mi sento a casa (quanto a sintassi, questa frase potrebbe averla scritta Vasco o, al massimo, Jovanotti). Com’è possibile, dico io, che mi senta a casa solo qui. Sì probabilmente è dovuto anche al fatto che era la città del defunto genitore e qui se volete possiamo grattarci sopra una spolveratina di Freud. A Roma mi sento a casa, e invece dopo aver vissuto per più di vent’anni nell’angolino veneto, tornare lì è sempre una gran tristezza. Tornare a Roma mi mette euforia. Poi, sarà anche brutta, però è casa mia. Ahhh casa mia che bellezza. Ci saranno anche gli infissi delle finestre talmente marci che tra un po’ viene giù tutto, però pur sempre è casa mia. E poi oggi andare al mercato ahhh che emozione, e comprare la scarola i broccoletti napoletani (chessò? come se fanno?) e le puntarelle, che goduria.

Casa. Concetto strano. Una volta pensavo che Dublino fosse casa, poi quando ci sono tornata lo scorso luglio, non mi sembrava casa per niente. Anzi mi metteva molta tristezza. E’ un po’ strano perché per alcuni casa è un concetto scontato, non è che uno deve scegliere dove deve vivere, ci vive e basta. Guarda i romani per esempio. Loro stanno sempre a lamentarsi di Roma, del traffico dello smog etc. però non è che si spostano, questa è la città loro, ci rimangono. Io invece che vivo mezza settimana qui e mezza tra Venezia e l’angolino veneto, e che ogni tanto vado nel rifugio toscano e malcapitatamente investo pure il futuro sul rifugio toscano (vi spiegherò), e poi non sto bene quasi da nessuna parte, però a roma ci rimarrei volentieri, beh insomma, per me il concetto <casa> è un concetto tutto in costruzione, molto astratto, molto volatile e mutevole.   Va bene.

Poi, già che ci sono, io volevo anche dirvi che ultimamente, tra le altre cose, ho letto The Ginger Man di James Patrick Donleavy che è un autore irlandese americano che nessuno conosce, e che però, non temete, non è il mio autore di dottorato, anche se sarebbe stato molto interessante, e che comunque leggetelo.

Va bene.

L’adulto di riferimento

Qualche giorno prima delle vacanze di Natale, nella mia scuola è venuto il prete per fare una piccola catechesi di preparazione alla confessione (scuola privata – scuola cattolica – scuola di suore). Dopo la piccola catechesi in cui ha raccontato una storiella inquietante su don Bosco, è stata consegnata la solita fotocopia con il solito esame di coscienza, sempre il solito, quello con cui siamo cresciuti noi tutti e ci siamo fatti venire tanta ansia in quei minuti terribili prima della confessione a pensare cosa dire e cosa non dire al sacerdote. Le solite domande divise in tre sezioni: il tuo rapporto con dio, il tuo rapporto con gli altri, il tuo rapporto con te stesso e il tuo corpo. Ma andiamo subito al dunque. Il tuo rapporto con il corpo. Domande: hai visto immagini sporche? hai rispetto del tuo corpo? sai che il tuo corpo è un tempio sacro?

Fine dell’esame di coscienza, si torna in classe, in attesa del proprio turno di confessione. Io avevo gli ultimi cinque minuti con la terza media (ricordo che insegno in una scuola media e aggiungo che i miei bambini sono proprio bambini, particolarmente piccoli, non ancora adolescenti). In terza media, rientrati  in classe, scoppia il dibattito:

Le femmine, indignate:

– Prof! Ma cosa vuol dire immagini sporche? ma con chi si credono di parlare? noi siamo piccoli, ancora non ci siamo arrivati a quell’età, insomma!

– Prof! Ma io l’altro giorno sono andata al cinema a vedere Twilight, me lo devo confessare?

– Prof! ma insomma! immagini sporche….ma, ma… come si permettono, noi del resto siamo una scuola privata! (….)

I maschi, invece, molto più beceri e grezzoni, si sono accontentati di indicare  ripetutamente, sghignazzando e starnazzando, pronunciandola più volte, quasi avesse un potere misterioso e apotropaico, la parola in questione, questa parola magica portatrice di inconsueta ilarità, “sporche”, questa parola polivalente (la mia collega quando l’ha letta ha detto: immagini sporche.. ma perchè qualcuno ha calpestato il foglio?)  che ha suscitato un incontrastato successo tra le fila maschili della classe terza media.

Un solo maschio, che io mi sia accorta, ha preso la parola: prof! io so per certo che lo studente G. ci va in certi siti, lo so perché me l’ha detto… io invece no! io invece ci sono andato una volta sola e li ho denunciati, che schifo, che schifo che mi ha fatto!

Gli altri, o hanno solo riso di fronte alla parola incriminata, oppure si sono tenuti a debita distanza dalle orecchie della prof.

Del resto l’adulto di riferimento, l’educatore della situazione, la voce saggia del formatore (cioè io) per tutto il tempo si aggirava tra le file dei banchi, con un immaginario sacchetto sulla testa, in religioso e imbarazzato silenzio, senza saper dare una parola di spiegazione, incoraggiamento, comprensione, di fronte a questa terribile spaventosa parola: “sporche”. La personale opinione della scrivente è che l’adulto di riferimento non dovrebbe fare la prof.  Detto tra noi, la parola “sporche” in quel contesto, mi sembrava molto infelice.

In seconda media, nel frattempo, la collega di italiano era alle prese con ben peggiori quesiti: Prof! ma cosa vuol dire: hai avuto rispetto del tuo corpo? in che senso? non capisco. Me lo può spiegare lei per piacere? io non riesco a capire.

La voce dell’innocenza.