L’astuccio rosa

 

Mi porto a scuola un astuccino rosa. Dentro ci tengo una penna nera e una penna blu, il temperino e la gomma, il righello non ce l’ho più l’ho perso, una penna rossa e diverse matite. Sono gelosa di tutto ciò che custodisce questo astuccio, in particolare di una bic nera maciullata e senza tappo ma che scrive come voglio io, e ancora rimpiango un righello di metallo che ogni volta che cadeva faceva un gran baccano, ma che ho perso.

Alcuni dei miei studenti non si portano il materiale. Lo elemosinano ai compagni che alla fine si stufano e li ignorano. Allora intervengo io con il mio astuccio rosa. Vado alla cattedra, lo prendo dalla borsa e mi dirigo verso lo studente in questione con la matita, il temperino, o la penna in mano. Gli dico: mi raccomando dopo restituiscimela che ci tengo. Se poi ci dimentichiamo e non mi ridanno quello che gli ho prestato, mi arrabbio, ci rimango male, mi infastidisco.

C’è questo studente quest’anno. Ha 16 anni, sulla soglia della delinquenza, qualche disturbo del comportamento non diagnosticato, forse un bipolarismo latente. E’ ingestibile, fuori controllo, incontrollabile. Offende, aggredisce, provoca. La mia prima lezione mi guarda, si volta verso i compagni, lo sento dire: “Ma guardatela non ha tette, ragazzi è completamente senza tette!” e devo dire che rispetto ad altri commenti, questo era quasi un complimento.

Ma ultimamente andiamo d’accordo. Abbiamo parlato, ci siamo chiariti. Noto in lui lo sforzo di non oltrepassare il limite del rispetto.

Tiro fuori dalla borsa il mio astuccio rosa e gli presto la mia matita. Gli dico: “Mi raccomando ridammela dopo, l’ultima volta che ti ho dato la matita poi non me l’hai più data, ci tengo” Insisto. Forse un po’ troppo, mi dice: “Pressoré, me lo dice un’altra volta e questa matita non la vede mai più”. Capisco e mi azzittisco.

A fine lezione mi ridà la matita, suona la campanella ed escono.

Sulla lavagna c’è scritto: “We love the English Teacher.”

Scuoletta

Comprensione del testo. III media.
1. Prof. ma in che giorno capita San Francisco?
2. Prof. a questa domanda rispondo letteramente o numeramente?
3. – Prof. cosa vuol dire “became”?
– non dovresti già saperlo?
– e’ il passato di ‘become’?
– brava.
– vuol dire “perché”?
– Ma mi hai appena detto che è un verbo!
– Ah. Allora vuol dire “anche”.

pezzi sparsi

– Passo una lunga serata in un locale di amici che si chiama Folkosteria dove si tiene una festa brasiliana. Assisto ad ulteriore movimento di bacino, entusiastiche espressioni di fratellanza ed energia sudamericana, dedico un minuto pensiero al mio maestro di aerobica, colombiano snodato e convinto dell’importanza del bacino, e decreto che, nell’eventualità di una lap dance (parola scelta con mire espansionistiche: questo blog non lo guarda più nessuno), io probabilmente farei il palo. Alle 2 di mattina c’è ancora un folto gruppo di brasiliani mascherati che ballano sui tavoli al ritmo di percussioni impazzite. Il tentativo di una ragazza con vestito bianco e casco di banane in testa di coinvolgermi nel movimento del bacino ha visto il completo fallimento del suo gesto, essendo la sottoscritta totalmente incapace perfino del passo ‘prendi sottobraccio la felicità’ del famoso e pluriennale ballo del qua qua qua. Che non comporta movimenti di bacino particolari.

Ma datemi lo swing, e mi vedrete trasformata.

– Studio le avvertenze generali per il concorso per docenti: legislazione scolastica, teorie dell’apprendimento, come predisporre una lezione efficace, didattica e nuove tecnologie, etc. Scopro in me un interesse che non immaginavo, ma soprattutto un desiderio di essere UnaBravaInsegnante, di fare qualcosa di creativo, di impegnarmi in un progetto più ampio, di non focalizzarmi sulle solite tre ore settimanali. Mi sento divisa in due, tra il dottorato e la scuola. Al telefono con mia sorella ci scambiamo i numeri di decreti legge, articoli della costituzione e disquisiamo sulle competenze chiave della cittadinanza attiva. Ansia.

– Correggo le lettere che mi scrivono in inglese i miei studenti, devono raccontarmi di una festa – un matrimonio, una festa in famiglia, un compleanno in discoteca – a cui hanno partecipato. Scrivono più o meno tutti le stesse cose, iniziano con le stesse frasi, seguono il modello del libro. Molti di loro dichiarano di aver ballato Gangam Style. Mmmm. Gnam gnam style, penso. Hanno scritto male… Che sarà? Cerco su Youtube, scopro che c’è un tizio con gli occhiali da sole che si agita a suon di una musica immonda. Musica che mi ripropongono in palestra. In che mondo sono finita. Colloquio con i genitori. Una mamma mi racconta che da quando c’è Bruno Mars il figlio è migliorato tantissimo in inglese.  – Sì, ha cominciato mia figlia a seguirlo, Bruno Mars, sa, e da allora anche mio figlio lo segue e niente, parlano in inglese tra loro, imparano, apprendono, è un piacere sentirli. E’ tutto merito di Bruno Mars se i miei figli stanno imparando l’inglese così bene (Grazie signora che me lo viene pure a dire, ma chi è questo Bruno Mars? è una nuova scuola di inglese? è un metodo di apprendimento linguistico che dovrei conoscere e non conosco? Sulle Avvertenze Generali per il concorso non ne parlano.. mmm… forse è un insegnante di ripetizioni famoso in tutta Roma che rende madrelingua nel giro di pochi mesi? E invece no! andate, andate a vedere anche voi chi è Bruno Mars, il nuovo Michael Jackson di noi ggiovani).

– Non contenta degli impegni e delle ansie che mi assalgono ricontatto lo scrittore irlandese. Ci accordiamo, il 2 marzo vado a Dublino a trovarlo. Mi sento un latte alle ginocchia; ricordi angosciosi mi rimandano ai mesi in preparazione dell’intervista con lo scrittore inglese, lo scorso aprile, ricordate? come dimenticare, vi ho assillato per sei mesi; incubi notturni minacciano il mio sonno. E tuttavia, lì, in fondo in fondo al tunnel, intravedo, lontanissimo, un lumino di imprevisto entusiasmo.

Riposo arretrato, time out

La scuola è cominciata da un mese e mezzo. Le prime settimane ho sfoggiato un’energia, un entusiasmo, un’allegria mai viste. Mi svegliavo alle sette con il sorriso sulle labbra, facevo le mie cinque ore di scuola, tornavo a casa e mi mettevo a studiare, tutto il pomeriggio, senza problemi. Verso le sette si andava a correre in pineta, e poi la sera, a casa, la cena, a letto. Un ritmo invidiabile.

Da qualche giorno le cose sono cambiate. La mattina mi alzo a fatica, vado a scuola. Dopo un paio d’ore di lezione sono stanca, mi si abbassa la voce, mi spengo. Oggi per esempio, vado a scuola alle otto e termino alle tre (scusate, tra parentesi, l’orario del mercoledì: due ore, un’ora di buco, due ore, un’ora di buco – in cui mi porto il computer e tento, invano, di studiare un po’ –  e dalle due alle tre il famigerato pranzetto*). Torno a casa, mi mangio un etto di pasta alle vongole, collasso al letto, dormo due ore, mi sveglio alle cinque e tre quarti, rintronata, vado a correre, giusto per dire di non aver buttato il pomeriggio, torno a casa, ceno e dormo. Di studiare, nonostante i miei continui tentativi, nemmeno l’ombra. La mia testa è una nebbia confusa di fotocopie, pagine di libri, esercizi, note sul diario, etc.

Allora, ho capito che la stanchezza arretrata dura almeno un anno; il riposo arretrato dura esattamente un mese.

Che poi, non mi piegherò a lamentarmi della mia nobile professione, però una cosa la devo specificare. Non solo io non ho mai detto nella mia vita (e tu cosa farai grande?) che avrei voluto fare l’insegnante, ma anzi, ho sempre detto che non avrei voluto farlo. E nonostante io ci metta tutta me stessa per miei bambini di scuola, qualcosa vorrà pur dire. E, a proposito di lamentele, ci sono molte, molte cose che potrei dire della mia nobile professione, ma tutto sommato le potete trovare altrove sull’internet e non mi dilungherò.

Comunque, oggi sono andata da una mia bambina di prima media, quella classe di ventisei incontenibili carognette. Le ho detto: “Lo sai che io e te, oltre ad avere lo stesso nome, compiamo gli anni anche nello stesso giorno?”. Lei mi ha guardato e mi ha risposto: ” Preferirei che mantenessimo una distanza professionale nella relazione studente-insegnante”. Haha. No, mi ha detto: “Eh!! Davvero prof. io e te oltre ad avere lo stesso nome compiamo gli anni nello stesso giorno? Che bello!!” Me li sono conquistati, lei e tutto l’entourage dei banchi accanto.

* pranzetto: prendete le vostre lauree, le vostre abilitazioni, i vostri sforzi per dottorarvi, la vostra professionalità e la vostra competenza, e buttatele tutte nel cesso! Dalle due alle tre, smettete gli scomodi panni dell’insegnante, riponete le penne rosse, indossate un comodo grembiulone e prendete in mano il vero strumento che vi si addice, il mestolo! Dalle due alle tre, eccoci tutte trasformate in assistenti al pranzo! Versate l’acqua nei bicchieri, mettete il sale nei piatti, pulite e sparecchiate, è l’ora del pranzetto! E  dimenticate che nonostante il vostro buon proposito di essere utili all’umanità, in realtà a questo pranzetto aderiscano numero due studenti, che si sanno gestire benissimo da soli, e che dunque la vostra presenza lì è assolutamente immotivata ma perfetta per rimandare il vostro viaggio a Venezia alle ore cinque del pomeriggio. Dimenticate e godete, l’odore stantio di quella mensa, la nuvola di zanzare in cui è immersa, e il ricordo dei tredici-diciotto anni, quando facevi la baby sitter ripromettendoti che sarebbe stata l’ultima volta.

Ah dimenticavo. Mi sveglio di notte di soprassalto, sudata e gridando: “Kindle, Kindle! Dove sei? Torna da me…” Non c’è più. L’ho restituito.

Nipotini e ansia da studio galoppante

Uno dei piaceri nell’avere un nipotino di quasi sei anni è la sorpresa nel ricevere inaspettate telefonate dal cellulare di mia sorella. Telefonate che si ripetono sempre uguali a se stesse, con variazioni minime. A volte queste telefonate sono pilotate, generalmente da una voce adulta di sottofondo, un intermezzo sussurrato che fa più o meno così:

– (Chiedile quando viene!)

– Quando vieni zia?

– (Dille: Zia ci manchi tanto!)

– Ci manchi tanto zia

– (Dille: Perchè non vieni, io non ti vedo mai!)

– Zia perché non vieni, non ti vedo mai!

io: Amore, passami nonna un attimo!

Altre volte però è la solita piacevolissima routine. Immaginatevelo al centro del corridoio di casa con la testa in su e una gamba arrotolata sull’altra, esattamente come farebbe il suo papà.

– Zia, posso dirti un’ultimissima cosa? Ma vieni al mio compleanno?

– sì tesoro, quest’anno vorrei tanto venire. Faccio il possibile.

– Senti zia, un’ultimissima cosa. Ma me lo fai un regalino quest’anno?

– Certo che ti faccio un regalino! te l’ho fatto anche l’anno scorso!

– No, non me l’hai fatto l’anno scorso.

– Ma sì che te l’ho fatto!

– mmm, no non me l’hai fatto.

– Ti ho regalato il puzzle di Ben Ten, ti ricordi?

– Ah, quello. Ma non me l’hai portato proprio il giorno del mio compleanno.

– Hai ragione, te l’ho portato la settimana dopo.

– Ti passo mamma.

(Ho scoperto che i bambini, beati loro, non conoscono le formule di chiusura di una telefonata).

Vi starete chiedendo che fine ha fatto la piccola fiammiferaia/dottoranda che dimora in me. Qualche giorno fa si è risvegliata da un lungo, lungo sonno. Ha sbadigliato e, ancora intorpidita, senza occhiali, e con gli occhi ancora chiusi è andata nello studio – quella stanza segreta in fondo al corridoio sempre chiusa, dove nessuno si reca mai -dove ha trovato una pila di libri impolverati e pieni di ragnatele, un odore di muffa e stantio, mozziconi di matite sparse sulla scrivania. Presa da un’improvvisa nausea, ha alzato un ditino e ha dichiarato, solenne e assonnata: “Il mio regno per un piatto di lenticchie!”. Ed è tornata a dormire.

Evidentemente stava ancora sognando.

In prima elementare e in prima media

In prima elementare:

– Ciao zia!

– Ciao tesorino mio! come vanno i tuoi primi giorni in prima elementare? racconta un po’ azzìa

– Bene, ti posso dire una cosa?

– Certo amore di’ azzìa tua

– oggi ho preso bravissimo e poi ho preso cinque stellette e poi quattro scudi

– che bravo! in che materia, in matematica, in italiano?

– Ehhh non lo so. Senti zia posso dirti un’ultimissima cosa?

– Certo dimmi.

– Sai che oggi un mio compagno di classe mi ha fatto male, mi ha dato una botta… e ho pianto.

– A scuola? ohhh mi spiace, e poi avete fatto pace?

– Senti zia, posso dirti un’ultimissima cosa?

– Dimmi amore

– Sai che oggi sono caduto dalla sedia e poi la maestra mi ha chiamato paperino e tutti si sono messi a ridere…

– ohhh, amore ma la maestra scherzava, l’ha detto per farti ridere anche a te, e tu ti sei offeso? ma no..

– Sì mi sono offeso ciao zia.

In prima media:

– Allora ragazzi, quello che ora ho scritto alla lavagna lo potete ricopiare sul quaderno, ok?

– Prof. posso fare anche un disegnino?

– Prof la scriviamo la data?

– la data la scriviamo in inglese o in italiano?

– come si scrive in inglese?

– si può usare la penna cancellabile?

– figo la penna cancellabile! Prof. può venire un attimo?

– Dimmi

– Posso andare in bagno?

– Prof. cosa c’è scritto là?

– Prof. cos’è quella una u o una a? sembra un fiore

– E’vero! un fiore, haha

– un fiore, haha

-haha

– Prof. posso buttare via la carta?

– prof. io ho finito

– prof. io devo ancora cominciare

– prof. ma tu sei inglese?

– …

-ragazzi, ora ascoltiamo una canzone così ci impariamo i saluti in inglese. E’ una canzone dei Beatles, si chiama Hello Goodbye.

– Prof. ma senti, ma sono vivi questi Beatles?

– Due sono vivi e due sono morti.

– ohhh, e come sono morti?

– uno è stato ammazzato e l’altro si è ammalato è morto.

– e perchè l’hanno ammazzato prof?

– e di che malattia è morto l’altro?

– sentite ragazzi possiamo ascoltare la canzone prima?

– prof!

– dimmi

– ma quanti anni aveva quando l’hanno ammazzato?

– con un coltello o con la pistola?

– Ma chi l’ha ammazzato?

– cosa, chi hanno ammazzato?

– Quello dei Beatles!

– prof. ma a te ti piacciono questi beatles?

– A lei le… Ragazzi basta, basta, basta domande. La prossima volta che ci vediamo vi parlo dei Beatles, ora ascoltiamo la canzone. Basta domande.

– Che bello prof!

– Prof. una cosa.

– dimmi.

– ma nella foto qual è quello che è morto?

My color preferit is grin

Cammino con la testa tra le nuvole. Ogni tanto prendo in pieno un palo. E’ vero. Guardo in alto. Le persone passano, mi osservano. Seguono la traiettoria del mio sguardo, si domandano. Cercano. Un uomo sul tetto, un ufo, un lampo. Un aereo, un aquilone, un barbagianni. Scuotono la testa, passano. Io cammino, guardo in alto. Guardo i tetti delle case. Gli attici dei condomini. Osservo i balconi, le antenne, le finestre. Gli abbaini, le inferriate, i vasi. Mi dimentico a volte che le città sono fatte di piani alti, che le case hanno un tetto, spesso un terrazzo. Poi, a un tratto, mi ricordo. La città che c’è lassù, al settimo piano. Faccio così quando devo cambiare casa. Quando devo scegliere un luogo, un quartiere. Guardo in su, i cornicioni delle case, gli angoli, i colori. Immagino che sia casa mia. Le piante, le tende, le finestre illuminate. Ora non devo scegliere nessun luogo e non devo cambiare casa. Ma ho ripreso a guardare in su. Guardando in su ogni tanto noto le insegne dei negozi. Ne hanno aperto uno nuovo sotto casa. Si chiama Amò. Con l’accento a forma di cuore. Verde e fucsia. Forse è per questo che immagino di cambiare quartiere.

Ieri sono andata a una festa di colleghi non miei in cui ora vi dirò tre parole e voi capirete subito di che festa si tratta: karaoke, vamos a la playa, balli di gruppo. Aggiungete varie tresche extraconiugali tra colleghi con marito o moglie al seguito e avrete un’idea del luogo in cui mi trovavo ieri. Appena entrata nel locale affittato (altro elemento inquietante) mi sono detta: o bevo o muoio. Ho scelto la prima opzione. I miei freni inibitori sono saltati come i tappi del prosecco che volavano qui e là. Con la scusa di: ‘ballo post-modernamente, non temere’, ho dato il meglio di me al suon di: “una man nella cabeza, un movimento sexi” (la i di sexi è volontaria, è post-moderna), però a un certo punto ‘post-modernamente’ non mi riusciva più di pronunciarlo, ma l’intento era lo stesso quando mi sono messa a cantare ‘la cura’ di Battiato. Il problema è che tutti quelli accanto a me non ballavano e non cantavano post-modernamente. Loro ci credevano veramente. Spero di non avere detto nulla di compromettente per nessuno, ma mi assicurano che sono stata sim-pa-ti-cis-si-ma. Mi hanno anche detto che assomiglio a Giorgia, il che mi ha fatto pensare che non fossi l’unica ubriaca, dal momento che Giorgia ha i capelli scuri, lisci e gli occhi castani e io no.

Non vi ho ancora parlato delle ventisei piccole carogne della nuova prima media. L’unità 1 del libro che ho adottato ha tre belle paroline da imparare: sleepy, bored, tired. Maledetti. “Prof. I’m tired. Prof I’m sleepy. Prof. I’m very very very bored. Prof I’m tired sleepy and bored”. La prima lezione è stata davvero gratificante. Mi danno del tu. Mentre parlo alzano la mano: Prof. tu da quanti anni insegni? prof. ma il quaderno a righe o a quadretti? prof. il titolo con la penna rossa? Prof. posso fare un disegno? Prof. ma si è messa la canottiera! Che caldo! (risposta della prof. trattenuta tra i denti: ‘sì, ragazzi mi sono messa la canottiera sennò la vicepreside va dalla preside e le dice di dirmi di coprirmi un po’ di più la prossima volta’.. e qui potete farvi una sommaria idea delle dinamiche patologiche in corso nella mia scuola).

 Ho fatto un test d’ingresso in cui ‘preferit, gennuary, cib’ sono all’ordine del giorno. Vivo in un mondo parallelo in cui 40su80 è sufficiente.

Piccole persecuzioni della vita accademica

Mi ripeto la lezione qui seduta davanti alla bottiglietta dell’acqua e il muro bianco, sul quale regolarmente passano correndo neri ragnetti spaventati. Ogni tanto li vedo calarsi dal soffitto imbragati con il loro fili come degli arrampicatori provetti. Poi mi chiedo perché tutte le notti sogno insetti nascosti nel sale, tra i piedi, che mi volano sui capelli. Mi ripeto la lezione, sono bravissima. Non ho nemmeno bisogno di passare lo straccio. Mi calo perfettamente nella parte. Spero segretamente che qualcuno mi stia ascoltando, un morto, un ragno, un angelo, non mi importa, qualcuno. Non è possibile che quando sono sola in casa, a porte e finestre barricate, mi esca una voce così cristallina, sicura, appropriata, perfino simpatica. Datemi un pubblico ed eccomi precipitare nell’oscuro vortice dell’incompetenza: eccomi balbettare, smozzicare mezze parole, farfugliare, interrompere frasi a metà, parlare in falsetto, sputacchiare, sudare, tremare.

Poi che faccio? Ah sì, mando una mail al mio tutor, una di quelle che gli mando una volta ogni sei mesi, avvertendolo di ciò che lo aspetta con un titolo di questo tipo: “Ambizioni Premature”, oppure “Dubbi progetto”, oppure “Non ce la faccio”, oppure “Sopprimetemi”, questa si chiamava “non datemi responsabilità non sono in grado di portarle” e in questa mail gli sottopongo una volta di più la mia confusione mentale ed esistenziale. La sua risposta, secca e asciutta come al solito contiene tra le altre cose le seguenti locuzioni: “la trovo impantanata”, “le avrei consigliato… ma…” “vedo ancora un nodo che va sciolto” e infine “mi stupisce che lei non noti…” Sadico. La notte è susseguita ad occhi sbarrati in preda ad interrogativi di non facile soluzione.

Nel frattempo, cercando di compensare nel cibo e nell’arte culinaria la totale assenza di alcuna gratificazione intellettuale, ho rovesciato la terrina dell’insalata di riso per terra, con tutto il suo contenuto. Speravo che Isidoro mi aiutasse a ripulire, ma quello non fa niente, non mangia neppure le zanzare.

Sono cominciati gli esami di terza media, domani c’è lo scritto di francese e giovedì lo scritto di inglese. Spero di potervi portare qualche chicca di ignoranza, possibilmente fatta da loro, non da me.

I dettagli rendono la vita più dolce

Vi ricordate la mia studentessa, quella che mi aveva scritto la letterina? oggi me ne ha scritta un’altra (ci credo! c’era il colloquio genitori). Stessa allegria di colori e cuoricini, stesse frasi dolci e affettuose: “Per la Professoressa + dolce”; “Non pensi alla scuola ma pensi a Me” (Attenzione: M con l’accento!); “Lei è fantastica ed ha molta pazienza”, “LVTBA1KDB x questo le auguro Buone Vacanze” (se riuscite a tradurre vi ringrazio), e poi finalmente, la chicca: “Si riposi e si diverti tanto, se lo merita”. … Si diverti? Fantozzi!

Le mie notti sono popolate di animali neri e oscuri. Stanotte nei miei sogni c’era una specie di zampa pelosa e brutta che camminava su e giù per le pareti della stanza, un giorno sì e uno no. Quando si riposava, la sostituiva un enorme ragno nero e peloso.  Con il polipo della volta scorsa, potrei allestire un circo. Preferivo il cammello dello scorso anno. Poi ho sognato anche il meccanico, che sicuramente mi diceva qualcosa di importante e rivelatorio, ma non chiedetemi cosa, ho rimosso.

Per fortuna che stamattina al mercato della frutta ho beccato il fruttarolo, quello con la panza de fora e che mi chiede di sposarlo. Oggi ha dato uno spintone al suo collega e gli ha detto: “Spòstate, quelle bbbelle le servo io. Ahò.” Ahhh, se non ci fosse lui.

Farfalline, lo so che ci state confortevoli nella mia pasta, ma non vi affezionate

Oggi ho cucinato. Eh sì, lo sapete che ogni tanto mi ci metto, con risultati più o meno catastrofici o grotteschi, a seconda che io stia preparando un dolce (catastrofici) o una minestra (grotteschi). Oggi ho fatto i tagliolini freschi al salmone. Stupiti eh? Beh, non esageriamo, i tagliolini freschi non li ho fatti io, li ha fatti l’augusto genitore, che ogni venerdì mattina lì nella casetta immersa in quel ridente lembo di veneto in cui passo metà della mia settimana, ogni venerdì mattina dicevo, io mi sveglio e trovo il tavolo della cucina stracolmo di roba da mangiare: scatole, contenitori, buste chiuse, tutto ricolmo dei più prelibati manicaretti: lasagne, tranci di fiorentine da mezzo chilo, involtini, contorni di radicchio fritto o al forno, verdurine, parmigiane, frutta di tutti i tipi, e poi i panini: il panino per pranzo, il panino per cena, il panino per lo snack, e poi la mela già sbucciata e arrotolata nel domopak, l’arancio già sbucciato pure quello, il dolcetto di cioccolato, il dolcetto-biscottino il dolcetto-yoghurtino, il dolcetto-caramellina, etc, etc, etc. Mia madre mi dice: “Vedi tu. Prendi quello che ti pare”. A quel punto io ho già cominciato a sudare e agitarmi: “Cosa prendo?” Ed è già avvenuto il rimpicciolimento, infantilimento, rimbambinimento, restringimento, rinsecchimento. Da culo, sono già diventata un culetto, direbbe Gombrovicz.

Io il venerdì mi scarrozzo in giro per la città coi ponti uno zaino da campeggio con il quale vado a lezione, poi vado alla stazione, prendo il treno, arrivo a Roma. Poi arrivata a Roma la giornata non è ancora finta. Insomma, io lo zaino lo voglio leggero! quando è pesante, io soffro, io mi ribello, io mi viene la gobba!

Ma tutto quel cibo…. tutto quel ben di dio… tutti quei manicaretti già fatti, già pronti…gnam gnam.. come faccio a lasciare tutto lì sul tavolo? Il dilemma mi lacera: cibo o leggerezza?

Allora ho trovato un compromesso, porto solo una cosa per volta. E venerdì ho scelto la pasta fatta in casa.

E in effetti di questo vi volevo parlare. Era una ricetta difficilissima da seguire: comprare il salmone, passarlo in padella con l’olio e una brezza di vino bianco, rovesciarci dentro la pasta ed ecco tutto fatto. Che bel pranzetto domenicale. Avevo pure acceso una romantica candelina.

Senonché, nel momento in cui butto la pasta, avviene l’arcano. Una, due, tre esserini neri, spuntano dall’acqua bollente, e mi guardano con occhi accusatori: Tu, ci stai affogando, tu, come hai potuto, tu, addio.

No! ancora loro! è una congiura, ancora farfalline nella mia pasta.

Io sapete che ho fatto? (non ditelo a nessuno), le ho prese e le ho buttate via. E poi ho fatto finta di niente…

La pasta era buonissima. Molto proteica.