Volente o nolente

– Volente o nolente trascorro alcuni giorni sola a Roma. Roma d’estate. Quella degli acquazzoni improvvisi e del caldo torrido; quella degli odori acuti e pungenti che salgono dall’asfalto e dagli angoli sporchi delle strade; quella delle metro gremite di turisti in sandali e cappellini insensibili al sole cocente; quella del fresco della sera, dei parchi verdi, dei piccoli locali illuminati. Sono contenta della mia estate romana, e non me lo sarei mai aspettato. Trascorro pomeriggi in piscina, in solitaria o con amiche, assorbendo il sole urbano e l’acqua clorata come ottimo palliativo del mar tirreno; leggo, nuoto e di fatto mi crogiolo mutamente sotto il cielo limpido di questi giorni. Altre volte vado in pineta a leggere, verso il tardi, e mi soffermo a contemplare l’atmosfera decadente e degradata di quel fazzoletto di terra che si srotola proprio dietro casa: dei ragazzini che giocano a calcio, due vecchietti che si guardano intorno, i cani, qualche ubriaco e la gente che corre. Alcune sere vado a un parchetto nelle vicinanze ad allenarmi con altre persone della palestra. Ormai qualunque attività fuori casa e di movimento del corpo mi provoca grandi picchi di benessere e grande contentezza, e il fatto che la mia istruttrice prediliga allenamenti di tipo militare e non si fermi davanti a gomiti bruciati e ginocchia scorticate è passato in secondo piano. Due sere a settimana vado a lezione di lindy hop, facendomi quaranta minuti di metro andata e quaranta a ritorno. Sto in mezzo a sconosciuti, a momenti mi sento abbastanza scema, ma poi mi diverto e passo un’ora così, senza pensare a niente. Esco dalla palestra alle 9 di sera circa, e la prima cosa che mi chiedo è: dove mangio di bello stasera? Mi sento addosso la festa di cenare fuori la sera, anche se poi prendo semplicemente un pezzo di pizza al taglio. Ieri invece era domenica, e sono andata nel tardo pomeriggio a Villa Pamphili, dove ho scoperto  che ogni giorno dalle 7 alle 8 c’è una lezione gratuita di yoga all’aria aperta. Non avevo mai provato, ed è stato molto bello. Pioveva a dirotto. Nonostante la pioggia, mi sono rilassata, a contatto con gli alberi e con le mie braccia, i pensieri si sono acquietati, ed ho respirato di un respiro profondo che mi ha accarezzato tutto il corpo. Spesso sto a casa. Leggo il mio libro, guardo serie tv e ascolto musica, scegliendo accuratamente il cd dalla moltitudine che ci sono qui in casa, oggi per esempio, i Soundgarden. Ieri, Cat Power e Beach Boys. I giorni scorsi, Bruce Springsteen, Queen of the Stone Age, Wilco. Ma se posso, cerco di stare a casa il meno possibile.

– Oggi pomeriggio immaginavo di andare a fare un  bagno al fiume. Una pozza fredda di acqua, i girini, le rane, i pesciolini che ti sfiorano le caviglie, il sole addosso, la pelle calda, il contorno onirico di un angolo di natura a due passi dalla metropoli. Chiudo gli occhi e immagino di calarmi nell’acqua gelata. Nonostante il sole c’erano dei forti tuoni, e nuvole nere alle nostre spalle, nascoste dagli alberi. A un certo punto però si metteva a piovere a dirotto, fortissimo. Uscivamo dall’acqua, indossavamo i nostri vestiti fradici e correvamo via sul letto del fiume, a piedi nudi. Ci rimettevamo le scarpe soltanto dopo, per risalire, e più tardi, a casa, mi ricordavo la sensazione dei piedi bagnati e infangati dentro le scarpe. Sarebbe stato uno di quei temporali estivi indimenticabili, con gocce grosse come sassi e il ticchettio della pioggia prima sull’acqua del fiume, e poi sui vetri della macchina. Sarebbe stato un pomeriggio a tratti felicissimo, ma quella felicità non sarebbe bastata a portare via tutta quell’altra tristezza e quel silenzio, che sarebbero rimasti lì, a guardarci, tutto il tempo.

– Il viaggio in India si è trasformato in un viaggio in Thailandia, da sola, di due settimane. Parto con un gruppo dei viaggi del Vagabondo, di cui non conosco nessuno. Leggere il programma dei viaggio ha suscitato euforia e intensa emozione in un periodo in cui la gioia più grande  era quella di svagarmi in palestra due volte a settimana. Visiterò la capitale, un’altra città e poi le isole a sud nel golfo di Thailandia, e ci saranno giri in bicicletta, passeggiate nella foresta, immersioni, feste notturne sotto la luna piena e grandi mangiate di pesce. La mia emozione si accompagna ad una certa inquietudine, ma oramai ho  imparato a conviverci.

Ancora di pesci

Sono a casa da sola. Non capita spesso. Sto bevendo birra con una certa veemenza, ascoltando Pet Sound e preparando una torta salata, perché di qualcosa dovrò pur nutrirmi. Mi sembra di pescare. Lancio la lenza in profondità, tento dei lanci a vuoto, ma l’amo rimane in superficie, sbatte contro qualcosa di duro, e asciutto. Poi non so come, trova una crepa acquosa, vi si immerge, cala giù. La lascio scendere, sprofondare, l’amo appuntito, il filo teso, spero che trovi qualcosa, spero che si impigli, spero di sentire la lenza tendersi. Spero di tirare a riva qualcosa. Qualsiasi cosa, una scarpa, una vecchia bicicletta arrugginita, una valigia vuota. Spero di trovare qualcosa.

Vorrei pescare un pesce. Dalle squame variopinte, metalliche ed elettriche, lo sguardo terrorizzato ma spaventosamente vivo e volitivo, le branchie affannate ad afferrare gli ultimi secondi di ossigeno. Non voglio soffocarlo, non voglio ammazzarlo. Solo guardarlo, magari metterlo in una bolla d’acqua per un po’, gustarne la bellezza, l’esotismo delle sfumature colorate, i movimenti guizzanti, lo sguardo liquido e così profondamente attento. Guardarlo un po’, poi liberarlo, perché, ad essere onesti, non so come si faccia a tenere un pesce in vita. Qui morirebbe. L’aria è asciutta e non c’è acqua. Lo guardo un po’, poi lo lascio rituffarsi giù nel profondo, libero di andare. Quando lo libero giù nel crepaccio profondo, rimane in superficie, mi guarda. Mi parla, con quel linguaggio dei pesci che ancora non ho imparato. Non capisco cosa mi dica.

Allora immagino. Immagino che dica vieni con me.

Terrorizzata, mi tuffo.

Le parole del pesce

Parlare con una persona che non conosci è come imparare un’altra lingua. Anzi, è come disimparare la tua lingua madre e non avere più una lingua con cui comunicare. Ecco allora che ti inventi espressioni tutte nuove, gesti strani che non hai mai utilizzato, metafore bizzarre, ecco che ti inventi una te tutta nuova che non conosci neppure tu e che non sai nemmeno da dove sia uscita. Parlare con una persona che non conosci è perdere le parole note, è indicibilmente complicato, specialmente per una che le parole le ha già dovute smarrire quando ha imparato una lingua straniera e che già si è dovuta rassegnare a non trovare più la parola giusta in italiano ma avercela pronta in inglese, ad avere dentro sé una lingua spezzettata, fondamentalmente inutile, spesso rimpolpata di frasi fatte e luoghi comuni, forse completa in un intreccio delle due, ma povera e insufficiente senza l’una o senza l’altra. Condizione del resto abbastanza ridicola per una non bilingue. Ed ecco oggi un nuovo inciampo linguistico, un nuovo passo falso nello smarrimento delle parole. Conoscere una persona nuova è perdersi nel vuoto, senza riferimenti linguistici stabili, è come andare all’estero, è come voler imparare a parlare la lingua dei pesci. Farsi crescere un paio di branchie.

Essere una persona senza linguaggio è come essere una persona disabile ed io così mi sento oggi. Muta, comunico con sguardi, mi sbraccio per farti capire e non so nemmeno io cosa voglio mostrarti. Ti guardo afasica.

Sono un pesce, ma estremamente felice.

Micro atti di ribellione

Decide di tornare a casa da scuola a piedi. Non soltanto per la presenza di una collega alla fermata dell’autobus che l’avrebbe costretta a sfilarsi le cuffiette dalle orecchie, spegnere l’mp3, riporlo in tasca e lanciarsi in un educato scambio di frasi fatte per tutta l’attesa dell’autobus e per tutto il tragitto fino alla sua fermata. Non soltanto per questo, benché sia stato motivo scatenante. Il tepore luminoso di questa mattina, e l’impulso forse irrazionale di camminare per ripescare pensieri sommersi l’hanno spinta a semplicemente non fermarsi. Proseguire. Proseguire. Proseguire. Camminare. Sebbene i pensieri sotterrati non siano riemersi, l’atto di tornare a casa a piedi con la musica calcata nelle orecchie ha in effetti costituito un vero e proprio atto di ribellione. L’atto di ribellione è attendere. Attendere che i pensieri ritornino, i ricordi fluiscano, la nebbia si alzi.

Attendere è l’atto di ribellione. Attendere è creare sacche di silenzio, di non attività, di assenza di senso del dovere, dove il pensiero è libero di andare, cercare, risalire.

Camminare è attendere.

Tento di trovare degli spazi di libertà in questo meccanico avanzare dei giorni

Sono in balcone. Ho trentacinque anni, un paio di occhiali verdi, un pigiama addosso e un cappotto appoggiato sopra perché è novembre e ho appena mangiato, la sera fa un po’ freddo. Sto fumando una sigaretta. Non mi succede mai, perché non le compro. E’ la mia salvezza, se le comprassi, probabilmente fumerei come una ciminiera. Ma questa volta ho una sigaretta in borsa. L’ho scroccata l’altra sera a una persona che nemmeno conosco, a una cena tra persone che ho visto due volte in due anni, ma poi non l’ho fumata più, ed è rimasta nella borsa. Allora la fumo ora che sono a casa, dopo cena, dopo avere steso i panni. Sono in balcone. E’ buio e c’è un gran silenzio. E’ il silenzio di Roma, ovattato da un lontano rumore di macchine che passano. Dal mio balcone vedo altri balconi, altre finestre, altre case. Ma non c’è nessuno fuori. Solo qualche luce natalizia di chi già pensa al natale. Cinque minuti di nulla. Il tempo di una sigaretta. Noto i dettagli, mi fermo. Mi accorgo che non lo faccio mai. Non penso più. Non mi fermo mai. La mia testa è piena di pensieri meccanici, cose da fare, la spesa, il pranzo, le bollette, gli scatoloni. A tesi finita, gli spazi vuoti si sono riempiti di futili attività necessarie correlate a pensieri altrettanto futili. A tesi finita, gli spazi vuoti si sono riempiti di altrettanto vuoto. Un vuoto necessario, il vuoto della sussistenza. Mi accorgo che è possibile riempire gli spazi di sole transazioni economiche. Il cibo, i mobili, gli assorbenti, i vestiti, le scarpe. E così, comprando, uno passa la vita.

Tento di trovare degli spazi di libertà in questo meccanico avanzare dei giorni, tento di sfuggire alla logica della compravendita, ai legacci della casa, alla meccanicità del lavoro. Tento di sfuggirne facendo le cose più in fretta, di più ogni giorno, comprimendole in ritmi serrati, routine rigorose, certa che a un certo punto avrò finito, avrò fatto tutto. Non capita mai. Non finisco mai. Vorrei entrare in casa e pensare, che bella. Non lo è mai. E’ sempre tutto in giro, tutto sporco, tutto in disordine. Penso con angoscia al giorno in cui cambieremo casa, manca poco, forse solo una settimana, nel timore che anche la casa nuova sarà un luogo inospitale, disorganizzato, ingestibile. Così mi sento io.

Cerco spazi, spazi in cui le parole possano ricominciare a fluire, a uscire da me. Pensieri, pensieri che escano dallo schema del devo comprare il latte.

Dove sono caduta?

bianco

tramonto a via dei condotti

Ieri il professore mi ha mandato un mail, mi ha scritto, le è arrivato il pacchetto che le ho spedito? Sì, mi ha spedito un pacchetto con un racconto di Clive Sinclair autografato, credo. A me non è arrivato il pacchetto. La prima cosa che ho pensato è stata. Ecco gli ho dato l’indirizzo sbagliato. Che dico, potrebbe esserci stato uno dei soliti ritardi postali, o lui ha scritto male. E’ difficile che uno si sbagli a dare il proprio indirizzo di casa. Speriamo che arrivi.

Ieri dovevo andare in centro, in un negozio alle quattro. Dovevo andarci con una mia amica. Poi alla mia amica hanno messo il collegio docenti e non è venuta più. Potevo disdire l’appuntamento in negozio ma poi non l’ho fatto, ci sono andata da sola, come una ragazza moderna. Il negozio è in Via Dei Condotti e prende sei numeri civici. E’ la prima volta che entro dentro un negozio in Via Dei Condotti. Di fronte ci sta Cartier, e accanto ci sta Dior.Un mondo a parte, credo, dove una borsetta costa 980 euro.  Ha diluviato tutto il giorno, ma alle quattro c’era una bella luce rosata. Al negozio sono stata molto coccolata, fino alla fine quando ti dicono i prezzi. Quando sono uscita ero molto contenta, e mi sono fermata a guardare le vetrine dei ricchi. A quel punto il cielo era tutto rosa e rosso e le pozzanghere per terra brillavano di luce. Mi sono molto divertita e Roma a volte è bellissima. La prossima volta però al negozio voglio andarci con le mie amiche, che non credevo, ma ho anche delle amiche che mi accompagnano al negozio.

Comunque il vestito che sono andata a vedere era bianco.

Un’estate

Mi sono laureata il 25 ottobre del 2004. L’anno che seguì, non feci granché. Avevo venticinque anni. Ero libera, il mondo e la vita davanti a me, nient’altro che l’imbarazzo della scelta. Andai tre giorni ad Amsterdam a fare l’interprete presso una fiera di prodotti marittimi. Andai ad un laboratorio di tre giorni a Verona, organizzato da MLAL, movimento laici America Latina, sperando di poter partire con loro per una esperienza di volontariato all’estero.  Poi non partii con loro. Ma in America Latina ci andai lo stesso, a Quito, in Ecuador, con un’amica. Rimanemmo due mesi, lavoravamo al doposcuola di una missione. Ci prendemmo anche una piccola vacanza, tre giorni alle porte della foresta Amazzonica. Viaggiammo un po’, qua e là. Valle Hermosa, come dice il nome stesso, ci colmò di colori, profumi, rumori per molti giorni a venire, dopo il nostro ritorno.

Tornata da questo lungo viaggio, mi rimisi a studiare, letteratura italiana questa volta. A settembre, infatti, avrei dovuto partire per Dublino, per lavorare nel dipartimento di italiano dello UCD come assistente di lingua, e per fare un dottorato. Ma era uno studio tranquillo, senza scossoni, senza paure. Quando arrivò l’estate, ero rimasta senza amici e senza contatti nella palude veneta. Capita così, a volte, quando uno non si sente a casa da nessuna parte. Quell’estate però, fu forse una delle più serene della mia vita. Non la più felice, no. Ma credo, la più serena, senza pensieri, senza ansie.

Lavoravo, come tutte le estati, in piscina come istruttrice di nuoto. L’ho fatto per dieci anni. Credo sia il lavoro più bello che esista, all’aperto, sotto il sole, in costume, coi bambini. Quell’anno mi pagavano parecchio, ed eravamo una bella squadra. Così, dalle 9 all’una, e a volte anche il pomeriggio, stavo in acqua, coi bimbi, Ma la cosa che mi interessa raccontare era il pomeriggio. Il pomeriggio smettevo i panni della istruttrice, mi rivestivo e andavo alla segreteria della piscina. Lavoravo lì fino alle sette di sera. Tutti i giorni. Era un lavoro semplice, bisognava iscrivere i nuovi bambini ai corsi, trattare con i genitori, far entrare gli ospiti del pomeriggio, organizzare i nuovi corsi. Ero impegnatissima. Ma era semplice. Io, in quei mesi, non ho pensato a nulla. Facevo quello che dovevo fare e basta. Stavo in piscina tutto il giorno. Trattare con le persone era facile. Ho dei modi naturalmente gentili, e la gente è normalmente ben disposta nei miei confronti. Era facile essere gentili, perché non era un lavoro faticoso.

Ecco, ultimamente penso che forse avrei dovuto fare un lavoro così. Un lavoro quasi meccanico, senza grandi pretese, dove le ore trascorrono, e tu ti senti utile, ma non attaccato, non in pericolo, non sotto esame.

Alle sette andavo un po’ al mare, poi tornavo a casa, con la mia bicicletta rossa. Cenavo con la mia mamma, e insieme guardavamo un film. Mi sentivo sola, sì. Però non stavo male, era tutto molto  regolare, molto tranquillo.

Poi a settembre partii. Quella fu l’ultima estate di lavoro in piscina.

Una giornata come tante altre

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Arrivo a Dublino da sola. Il cielo è azzurro e limpido mentre scendo gli scalini dell’aereo. Mi tolgo la giacca, il giacchino, resto con una maglietta senza maniche bianca.  Prendo l’AirCoach, scendo al Trinity. Ho prenotato una stanza negli appartamenti del College. Passo all’Accomodation Office, mi danno la chiave. Mi portano all’appartamento con un furgoncino. Chiacchiero con lo studente che guida, un ragazzo che studia musica al Trinity. Arrivo alla stanza, mollo i bagagli, mi lavo i denti e riesco. Incontro lo scrittore. Ci vediamo davanti alla Berkeley Library, prendiamo qualcosa a un cafè, e andiamo a stenderci al parco del Trinity. Non c’è una nuvola. Il caldo è confortevole. Distendo le gambe sull’erba verde, poi le tiro su, appoggio la testa sulle ginocchia.

Con lo scrittore parliamo di libri, di teatro, del mondo dell’editoria e del mondo dell’insegnamento. Parliamo anche del mio dottorato, ma io molto abilmente indirizzo il discorso verso altri lidi. Il mio inglese scende giù come un ruscello a primavera. Non sono più io. Scopriamo che due giorni prima abbiamo comprato un libro dello stesso autore semi-sconosciuto italiano, libro che io ho in borsa. Parliamo di Roma. Andiamo a prendere la sua bicicletta, ci salutiamo.

La stanchezza mi appanna i contorni. Passo il resto del pomeriggio a St Stephen’s Green a leggere. Poi mi muovo. Mangio qualcosa al volo, vado al cinema a vedere l’ultimo film di Sofia Coppola. Mi sento parte della città, mi sento del luogo. Non sono una turista. Abito qui. Rientro al Trinity. Passeggio tra i viali e palazzi al buio, deserti, ogni tanto un’ombra passa – forse uno studente, forse un fantasma. Fotografo il buio, fotografo le ombre. Intravedo due piccole volpi che giocano – si fermano, mi guardano. Passa la Dart sopra la mia testa. Parte direttamente da Pearse Station, che luccica di oro nero proprio davanti a me, oltre i cancelli del college. Si allontana la Dart, c’è silenzio. Salgo gli scalini dell’appartamento, entro nella mia stanza. Scatta il lucchetto alle mie spalle.

Il piccolo Leprechaun

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– Faccio lo slalom in mezzo a sempre più frequenti macigni di ambivalenza, piombati ultimamente sul percorso. Mi destreggio tra scogli più o meno appuntiti.

– Mi reco nonostante tutto ad una conferenza su Joyce organizzata dai miei amici, quella manica di Joyciani pazzi. Non mi va di vedere nessuno, mi nascondo dietro la colonna. Non parlo con nessuneo, tuffo il mio capino dntro il kindle, su cui concentro tutta la mia attenzione, come se dovessi bruciarlo col pensiero. Immagino che, se io non guardo nessuno negli occhi, nessuno mi noterà. In effetti è proprio così, nessuno mi si fila proprio, e non capisco perché io debba avere la tachicardia e l’ansia che mi sale come una nebbia densa. Arriva l’ospite atteso del pomeriggio, hanno puntato in alto i miei amici, il Presidente! Il presidente Michael D. Higgins. Si presenta un omino canuto, con due enormi sopracciglia bianche, la carnagione paonazza come ogni irlandese che si rispetti, le orecchie un po’ a sventola, la pancia, e una magnifica cravatta a girasoli arancioni su sfondo verde. E’ bellissimo, è un vero Leprechaun! Si mette a parlare una strana lingua, arcana, gutturale, misteriosa. Mi domando se terrà tutta la conferenza in Irish, in Gaelico. Dopo un po’ mi accorgo che è inglese, sta parlando in inglese. E’ inglese, ma io non capisco niente. Alle quattro lui termina, il convegno prosegue. Io faccio una specie di salto della gazzella dal sedile col quale mi sono mimetizzata a fuori la porta fuori l’università fuori dal mondo, c’è un trampolino di lancio da questo universo? avrei bisogno di staccare un attimo! Fuori c’è un bel sole, tiro un sospiro di sollievo, poi penso a tutte le cose bellissime che mi sono persa fuggendo come un ladro e mi prende l’angoscia. Poi penso che sono sfuggita a circa 4 ore di interventi su Joyce che non mi va di sentire, allora mi sento sollevata. Poi mi viene in mente che dovrò trovare una giustificazione plausibile alla mia fuga, allora mi vengono le gambe molli, poi penso che me ne sono andata perché devo scrivere la tesi, allora non so più se devo sentirmi bene o male. Macigni, come vi dicevo.

– Ad aerobica mi rendo conto che ci sono delle persone che sono nate per muovere il bacino, forse è il loro destino, il loro vero talento, la loro vocazione. Lo muovono a destra a sinistra in alto in basso, lo staccano lo fanno roteare sopra la testa se lo rimettono con una capriola. Loro muovono in bacino sempre: in palestra, in autobus, mentre vanno a lavoro, a casa e al supermercato. Loro sperano che tutto il mondo possa notare e apprezzare il vero motivo per cui sono venute al mondo: il movimento del bacino.

Io a mala pena ce l’ho un bacino.

Disappear

some things never disappear

they just hide somewhere away

wait for things to be clear

and wish that everything could stay

 

Yet they watch things as they are

think that something went so bad

that they had to run this far

or eternally be sad

 

now it’s time to be strong

to find a way to go on our own

to accept sometimes we are wrong

and see what else we should have known

 

I have learnt to let it be

‘cause all things change and yet remain

silence comes and makes us see

that we haven’t loved in vain