Le parole del pesce

Parlare con una persona che non conosci è come imparare un’altra lingua. Anzi, è come disimparare la tua lingua madre e non avere più una lingua con cui comunicare. Ecco allora che ti inventi espressioni tutte nuove, gesti strani che non hai mai utilizzato, metafore bizzarre, ecco che ti inventi una te tutta nuova che non conosci neppure tu e che non sai nemmeno da dove sia uscita. Parlare con una persona che non conosci è perdere le parole note, è indicibilmente complicato, specialmente per una che le parole le ha già dovute smarrire quando ha imparato una lingua straniera e che già si è dovuta rassegnare a non trovare più la parola giusta in italiano ma avercela pronta in inglese, ad avere dentro sé una lingua spezzettata, fondamentalmente inutile, spesso rimpolpata di frasi fatte e luoghi comuni, forse completa in un intreccio delle due, ma povera e insufficiente senza l’una o senza l’altra. Condizione del resto abbastanza ridicola per una non bilingue. Ed ecco oggi un nuovo inciampo linguistico, un nuovo passo falso nello smarrimento delle parole. Conoscere una persona nuova è perdersi nel vuoto, senza riferimenti linguistici stabili, è come andare all’estero, è come voler imparare a parlare la lingua dei pesci. Farsi crescere un paio di branchie.

Essere una persona senza linguaggio è come essere una persona disabile ed io così mi sento oggi. Muta, comunico con sguardi, mi sbraccio per farti capire e non so nemmeno io cosa voglio mostrarti. Ti guardo afasica.

Sono un pesce, ma estremamente felice.

Una parte di me vorrebbe intitolare questo post: Come ottenere un dottorato immeritatamente. Ma ho deciso di ascoltare quell’altra parte di me che dice: “Ce l’hai fatta sii felice!”

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La mattina del 23 febbraio non ero così tesa e preoccupata come pensavo. Sarà stata la cura di due valeriane al giorno osservata accuratamente da una settimana. Sarà stata la rassegnazione con cui il condannato a morte accetta la sua sorte il giorno dell’esecuzione. Sarà stata anche la fioca consapevolezza che nel giro di poche ore tutto sarebbe stato compiuto. Nel bene o nel male, tutto sarebbe presto finito. Così, se nei giorni precedenti l’angoscia universale aveva toccato picchi di disperazione cosmica e desiderio di morte, quella mattina, l’unica sensazione era quella di una ottusa insensibilità, un menefreghismo latente, un indifferente automatismo. Potrei dire un altero atarassico innalzarmi al di sopra delle meschine preoccupazioni della giornata, come ad una dea che sbadiglia di fronte alle tediosi occupazioni dei mortali.

Ci ha pensato mia mamma comunque a precipitarmi in pochi secondi a ben più terreni desideri – tipo dare un pugno al muro, scaraventarmi per terra a piangere, o semplicemente imprecare – costringendomi ad un servizio fotografico fino a pochi minuti prima di cominciare.

Mi avevano assicurato che sarebbe stata una discussione piacevole, tra vecchi amici esperti della materia. Forse si sono dimenticati di avvertire una dei tre professori che facevano parte della commissione che a) era una discussione piacevole, amichevole; b) ero io che dovevo fare bella figura, non lei! Dunque la suddetta professoressa ha letteralmente rubato la scena alla nostra e agli altri professori, lanciandosi in interrogazioni relative a disquisizioni teoriche postcoloniali di altissimo livello, sfumature di significato nella scelta terminologica, investigazioni capillari sulla vita intellettuale dei due autori. Interrogazioni sempre più serrate che, pur avendo lasciato senza fiato la nostra, non le hanno comunque impedito di trovare una risposta ad ogni domanda. O per lo meno di non fare scena muta. La nostra ha sempre risposto, ha sempre detto qualcosa ad ogni riguardo. Che poi la sua risposta sia stata pertinente alla domanda, questo lo lasciamo ai posteri di decidere.

La nostra eroina si ritiene soddisfatta di avere sostenuto un’ora e mezza di terzo grado. Dopo ben più semplici e informali domande da parte degli altri due commissari, i tre si sono ritirati nelle loro stanze per deliberare il verdetto. Mentre la nostra sentiva soltanto ora l’adrenalina salire salire nelle sue vene, facendola sentire improvvisamente onnipotente e bellissima, i tre commissari la richiamarono nella sala dove, al cospetto di una claque di tutto rispetto – una mamma e un neo marito – la nostra è stata ufficialmente proclamata Dottore di Ricerca in Lingue Culture e Società.

Usciti dal dipartimento, la città Lagunare l’ha accolta in un tripudio di sole e calore primaverile, nel quale l’eroina del momento si è tuffata, soltanto ora godendosi il sollecito utilizzo materno della macchina fotografica.

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Sorella e nipotina l’hanno raggiunta giusto per l’aperitivo a campo Santa Margherita, luogo in cui la nostra aveva festeggiato la sua laurea, E in questo doppio festeggiamento – del dottorato e di avere in una magica mattina di febbraio accanto a sé gli affetti più cari – la nostra si è semplicemente sentita molto felice.

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Un’estate

Mi sono laureata il 25 ottobre del 2004. L’anno che seguì, non feci granché. Avevo venticinque anni. Ero libera, il mondo e la vita davanti a me, nient’altro che l’imbarazzo della scelta. Andai tre giorni ad Amsterdam a fare l’interprete presso una fiera di prodotti marittimi. Andai ad un laboratorio di tre giorni a Verona, organizzato da MLAL, movimento laici America Latina, sperando di poter partire con loro per una esperienza di volontariato all’estero.  Poi non partii con loro. Ma in America Latina ci andai lo stesso, a Quito, in Ecuador, con un’amica. Rimanemmo due mesi, lavoravamo al doposcuola di una missione. Ci prendemmo anche una piccola vacanza, tre giorni alle porte della foresta Amazzonica. Viaggiammo un po’, qua e là. Valle Hermosa, come dice il nome stesso, ci colmò di colori, profumi, rumori per molti giorni a venire, dopo il nostro ritorno.

Tornata da questo lungo viaggio, mi rimisi a studiare, letteratura italiana questa volta. A settembre, infatti, avrei dovuto partire per Dublino, per lavorare nel dipartimento di italiano dello UCD come assistente di lingua, e per fare un dottorato. Ma era uno studio tranquillo, senza scossoni, senza paure. Quando arrivò l’estate, ero rimasta senza amici e senza contatti nella palude veneta. Capita così, a volte, quando uno non si sente a casa da nessuna parte. Quell’estate però, fu forse una delle più serene della mia vita. Non la più felice, no. Ma credo, la più serena, senza pensieri, senza ansie.

Lavoravo, come tutte le estati, in piscina come istruttrice di nuoto. L’ho fatto per dieci anni. Credo sia il lavoro più bello che esista, all’aperto, sotto il sole, in costume, coi bambini. Quell’anno mi pagavano parecchio, ed eravamo una bella squadra. Così, dalle 9 all’una, e a volte anche il pomeriggio, stavo in acqua, coi bimbi, Ma la cosa che mi interessa raccontare era il pomeriggio. Il pomeriggio smettevo i panni della istruttrice, mi rivestivo e andavo alla segreteria della piscina. Lavoravo lì fino alle sette di sera. Tutti i giorni. Era un lavoro semplice, bisognava iscrivere i nuovi bambini ai corsi, trattare con i genitori, far entrare gli ospiti del pomeriggio, organizzare i nuovi corsi. Ero impegnatissima. Ma era semplice. Io, in quei mesi, non ho pensato a nulla. Facevo quello che dovevo fare e basta. Stavo in piscina tutto il giorno. Trattare con le persone era facile. Ho dei modi naturalmente gentili, e la gente è normalmente ben disposta nei miei confronti. Era facile essere gentili, perché non era un lavoro faticoso.

Ecco, ultimamente penso che forse avrei dovuto fare un lavoro così. Un lavoro quasi meccanico, senza grandi pretese, dove le ore trascorrono, e tu ti senti utile, ma non attaccato, non in pericolo, non sotto esame.

Alle sette andavo un po’ al mare, poi tornavo a casa, con la mia bicicletta rossa. Cenavo con la mia mamma, e insieme guardavamo un film. Mi sentivo sola, sì. Però non stavo male, era tutto molto  regolare, molto tranquillo.

Poi a settembre partii. Quella fu l’ultima estate di lavoro in piscina.

Far West, biblioteca e compartimenti stagni

IMG_20130905_162212Poi quel cassettino dove dentro sono un genio si deve essere aperto forse a tre quarti, perché l’orale di quel concorso alla fine l’ho passato con 36 su 40, il 30 luglio, dopo avere studiato per un mese. Chiusa nell’appartamento di Roma, con 36-38 gradi, le serrande tirate giù, vivendo praticamente al buio, con i gechi sempre più numerosi che strisciavano lunghi i pavimenti riarsi. Sudata, viscida, sporca, trascinandomi senza soluzione di continuità dalla camera a ovest la mattina, giù giù fino alla camera a est nel pomeriggio, sfruttando le correnti di vento tropicale che dalla finestra del bagno entravano a donare un po’ di sollievo.. un vento caldo, secco, che asciugava la pelle e le fauci e che faceva svolazzare ciuffi di polvere negli angoli più remoti. Accompagnata da opachi rimorsi per un dottorato trascurato, una tintarella sbiadita, nipoti e parenti dimenticati. La sera, però, cenette a lume di candela nel ventilatissimo balcone di casa, unico sollievo alla calura che saliva dal cemento delle strade.

In questo far west estivo, che è la Roma di luglio, ho anche preso l’abitudine di andare alla biblioteca della pineta. Dalle nove a mezzogiorno la mattina e dalle tre alle sette il pomeriggio, quando sono bravissima. Cammino 15 minuti per arrivarci, avanti indietro avanti indietro fa un’ora di cammino al giorno. A meno che non rimanga a mangiare lì nei dintorni. Ora che sono tornata a Roma ho ripreso ad andarci. La luce mattutina in pineta è bellissima. Mi sorprende quanto il senso di routine crei in me un senso di equilibrio e bilanciamento che scompone ed è inaspettatamente più forte di abitudinarie ansie e angosce che popolano quotidianamente quel cassettino della mia testa dove dentro sono una nevrotica. No matter what. Io in biblioteca scrivo. Scrivo scrivo scrivo.

Mi dimentico di tutto. Entro in una sorta di trance intellettuale in cui nella mia vita esiste solo una cosa, l’odiata amata tesi di dottorato.

Andando in biblioteca in pieno luglio e in agosto mentre la gente normale è al mare e sperimentando questo senso di grande soddisfazione e compiacimento nel mio ‘fare il mio dovere’, ho anche capito un’altra cosa di me. Io non so riposarmi. Non so oziare. Riposo vuol dire pensieri, pensieri vuole dire angoscia, angoscia vuol dire infelicità, infelicità vuol dire, in qualche modo dovrò rompere i coglioni alla gente intorno a me pur di non sentirmi così angosciata. Tutto questo vuol dire, un’estate passata a Roma a studiare (no, dico) è diventata meglio di un’estate passata al mare a riposarmi.

Questo bel circolo vizioso che la biblioteca ha momentaneamente interrotto, deve essere spezzato e sarà argomento da discutere in officina nei prossimi mesi. Anche qui, se volete.

Il cassettino nascosto della bambina prodigio

– Per concludere l’anno e ringraziarci, i ragazzi di terza media ci hanno regalato un annuario con foto, pensieri, disegni e ricordi dei tre anni passati insieme. Lo sfoglio e leggo frasi di questo tipo: “Ho avuto un buon rapporto con tutte le prof. tranne quella di ginnastica che mi ha preso in antipatia”; “la prof. di italiano è fantastica, la prof. di inglese è dolce e tranquilla, ma non mi piace il suo metodo di insegnamento; la prof. di storia invece non mi piace”; “la prof. di matematica ci dava troppi compiti, la prof. di ginnastica non mi piaceva, l’unica con cui mi sono trovato bene è quella di arte”. E così via. L’annuario, regalino di fine triennio, è diventato un documento di valutazione degli insegnanti, con giudizi firmati, genitori consenzienti, tanti sorrisi e abbracci. A quanto pare miei studenti hanno un futuro assicurato all’Invalsi.

Ah comunque, quella dolce e tranquilla ma con un cattivo metodo didattico sarei io. In effetti me l’avevano detto che dovevo smettere di prenderli a sberle quando mi arrabbiavo e che per piacere la manicure dovevo farla durante l’intervallo e non mentre spiegavo.

La preside ci ha mandato un sms per consolarci: “Non badate a quegli stronzi”, a cui io ho risposto con la mia proverbiale pruderie: “In effetti sono stati davvero poco carini.”

– Sono stata al concerto dei Veils, all’Init di Roma. Ci siete stati all’Init? in pratica è il Circolo degli Artisti dei poveri. Mentre andavamo, presa da entusiasmo ho telefonato a mia zia e le ho detto: “Zia! sono vicina a casa tua, un locale sulla Tuscolana!” Mia zia, la moglie dell’ammiraglio, mi ha risposto un po’ perplessa: ah si? ehm, ma non sarà mica quel locale tutto nero, isolato, pericoloso… ehm..sì sì, brava, brava, divertiti! ciao, clic”  Il pubblico era composto da uno spaurito gruppetto di persone. Eravamo talmente pochi che su facebook hanno messo le foto di tutti i concerti del tour, tranne che quello di Roma. Si sono vergognati di noi. Non di me, però, che ho cantato come un’ossessa in uno di quei rari momenti di perdita del controllo e intensa goduria. E’ stato bellissimo. Giro per casa con addosso la maglietta firmata da Finn  Andrews canticchiando tutta contenta. Il fatto è che anche l’occhio vuole la sua parte, e Finn è bellissimo.

– Nel frattempo, finiti gli esami di terza media che mi hanno lasciato alquanto prostrata e piuttosto delusa, passo le giornate nella biblioteca della pineta. Ci arrivo dopo il caffè da Castroni, dopo una camminatina di quindici minuti al ritmo delle mie cuffiette (The Veils in primis, lasciatemi questo momento di celebrazione adolescenziale). Scrivo la tesi, preparo l’orale per il concorso, organizzo un viaggio in Irlanda, e litigo con me stessa nel tentativo di convincermi che no, non riuscirò a fare un viaggio come dico io nemmeno quest’anno. Mentre in biblioteca scrivo al ritmo di due tre pagine al giorno (mai studiato tanto bene in vita mia) penso che sì, ci deve essere, nascosto da qualche parte nel mio cervello, un cassettino nascosto dove io sono un genio.

Quando l’arancio rosseggia

Anche sabato mi sono svegliata alle cinque di mattina. Il risultato è stato che poi ho dormito dalle dodici all’una, e poi tutto il pomeriggio fino alle sette. Una giornata molto produttiva insomma.

Poi con la luce del tramonto abbiamo fatto una passeggiata a Roma. E’ la Roma più bella quella del tramonto. Con la nostra guidina rossa abbiamo guardato il tempio di Vesta e il tempio della Fortuna Virile, abbiamo passeggiato in Trastevere e attraversato l’Isola Tiberina. Cammina cammina, siamo finalmente arrivati in una birreria che si chiama Open Baladin. Vi dico cosa c’era nel mio hamburger: un hamburger vero cottura media spesso e morbido, non il pezzettino di cartone del mcdonald, cipolle rosse di tropea sfumate alla birra, pancetta, peperoni grigliati, pecorino, pane fresco e tanto tanto amore.

Ogni tanto dimentico di trovarmi a Roma. Cioè, a ricordarmelo ci sono la spazzatura, il traffico, le buche sul marciapiede, lo sporco imperante.

Poi, magicamente, piccoli momenti dorati a ricordarmi com’è bella questa città.

Bagnarole ballerina in erba

Liffey sleeping

Il meccanico dice che devo assecondare la parte frivola di me, sì proprio lei, quella del rossetto e del movimento del bacino. Anzi, dicono che sia una parte molto simpatica, l’altra sera all’officina ha improvvisato un vero e proprio spettacolino, ancora un po’ e si metteva a fare un balletto di danza moderna davanti ad un pubblico entusiasta e piuttosto parziale. Insomma, dicono sia un vero spasso, ma la me bacchettona si indigna scandalizzata: “Dare corda a quel covo di serpi velenose?!  Lasciarla libera, permetterle di esprimersi? Giammai! Il mondo potrebbe subirne drammatiche conseguenze, dove andremo a finire, o donna immonda e perversa, io ti censuro!” (così la me bacchettona, potete capire la confusione qui dentro).

Ora, essendo la parte bacchettona di me generalmente sovrana del qui dentro, ed essendo io oramai avvezza ad un autocontrollo ferreo e forzato, a volte accade che, in circostanze straordinarie di abbassamento del controllo (che ne so, in Irlanda, di sera, dopo una Guinness), avvengano delle cose incredibili, impensabili, inimmaginabili.

Perché, voi pensavate che a Dublino ci fossi andata per quella importantissima intervista al giovane scrittore dublinese vero? E invece, chi l’avrebbe mai detto, io a Dublino, ci sono andata, per ballare la salsa!

Ebbene sì, il mio maestro di aerobica colombiano sarebbe stato davvero orgoglioso di me, a vedermi volteggiare così, a vedermi roteare il bacino così, sciolta, disinvolta, sensuàl! Sì, perché se trovi un giovane e muscoloso ballerino disposto a soprassedere sul fatto che te di salsa non sai assolutamente nulla e che generalmente sei sciolta tanto quanto una zappa, tale ballerino può fare miracoli, portandoti a vertiginose altezze di prodezza latino-americana. E se come me, ma non ditelo a nessuno, siete cresciuti imparandoti nascostamente i passi da Dirty Dancing, potete capire la portata trasgressiva di tale folle notte dublinese. E pensare che mi ritengo una persona seria e che, in situazioni di consuetudine, la musica latino-americana mi annoia parecchio (ma se c’è il ballerino tutto cambia, interessante).

Dell’intervista con lo scrittore vi parlo un’altra volta, che devo ancora sbobinare quel paio d’ore di chiacchierata. Sono sicura che l’operazione di trascrizione, che sto consapevolmente ritardando, si trasformerà in una vera e propria collezione di gaffe e cavolate varie che ho detto e fatto e che sfrutterò qui per divertire il mondo intero.

La mia Irlanda è così, ogni volta mi regala qualcosa. E se l’ultima volta, un paio di anni fa, Dublino mi aveva accolto con molta pioggia, e mi aveva infastidito, in quel luglio pieno di turisti saccenti e di pseudo-vichinghi rumorosi, e di scolaresche italiane, questa volta mi ha salutato con ben più affetto. Stranamente asciutta, si è attardata a farmi compagnia con le sue fresche serate, i double-decker giallo blu, i nomi familiari delle strade, i ricordi miei che affiorano ad ogni angolo. Se pur grigia, si è colorata di sfumature argentate. Sarà stata la Liffey, che molle e sonnacchiosa, brillava dei raggi del tramonto.

Bibi

E’ una giornata uggiosa e monotona, grigia e piovosa.  Mi attende questa sera una cena familiare, con tutti i miei sette parenti riuniti  attorno all’antico tavolo dove un tempo si sedeva mia nonna a capotavola con la sua zazzera arancione e con le sue battute piccanti e poco consone alla sua veneranda età.

Non è passato molto tempo in questa famiglia da quando lo scatto generazionale ha prodotto in poco tempo quattro, no cinque, facciamo sette se consideriamo le ramificazioni da famiglia allargata, sette marmocchi dagli occhi grandi e le mani paffute, quasi tutti con lo stesso nome. Dovete sapere che nella mia famiglia si utilizzano quasi esclusivamente due nomi. Uno è il nome di mio padre, mio nipote, il primo marito di mia zia, il secondo marito di mia zia, il nipote del secondo marito di mia zia, e la lista potrebbe andare ancora avanti. L’altro nome è il mio, e anch’esso si tramanda di generazione in generazione.

Ma fino a pochissimo tempo fa, la piccola della casa, la pupa, per così dire ero io. E il mio nome, quell’inflazionatissimo nome di cui vi dicevo, nei primi anni della mia vita, non è stato mai usato. In casa, fin dalla nascita, io ero Bibi. Bibi, la piccola. Bibi, è piccola lei. Bibi, non la sgridate, che è piccola.

A cinque anni, forte della mia età e dei miei capricci, nella casa dei miei nonni, dove si passavano le vacanze e che ora non c’è più, non come la ricordo per lo meno, ho portato in casa la prima rivoluzione: io non sono Bibi. Io sono grande. Non sarebbe stata l’ultima. Mi sono buttata a letto a strillare e scalciare e agitarmi, piangendo lacrime, chissà, forse vere. Io sono grande, io non mi chiamo Bibi. Dopo due ore, hanno capitolato. Andando a cena con fare maestoso e ‘da grande’, nonni, genitori e cugini mi guardavano con aria intimorita e riverente. Non è più Bibi, è grande. Mi circondava un’aura di regale grandezza, di nuovo battesimo. Se per dirmi: su mangia, si sbagliavano e dicevano su, mangia Bibi, si mordevano le labbra, correggendosi subito. Ah no, non Bibi, è grande lei.

Dopo un po’, smisero di chiamarmi Bibi del tutto, non si sbagliavano più. Per un certo tempo, ho rimpianto questo soprannome, essere piccoli a volte fa comodo. Andò a finire nel dimenticatoio e ne  rimane traccia solo come scritta dietro alcune vecchissime foto in cui sorrido in un passeggino con dei sassolini in mano.

Ho conquistato il mio nome con le unghie e con i denti, come del resto tutto ciò che oggi mi appartiene.

La vita della fattoria

Avevo circa vent’anni quando sono tornata in Irlanda. Era quello il periodo dei sacrifici e del mutuo da pagare, soldi in casa non ce n’erano. Per permettermi di fare una vacanza studio mia madre si mise in contatto con amici di amici di amici di amici. Infine trovammo una famiglia che poteva ospitarmi per circa un mese senza dover pagare nulla. Abitavano in campagna, in un paese vicino Cork che si chiamava Carrignavar. Ma che dico un paese, Carrignavar era una viuzza di aperta campagna, puntellata, di tanto in tanto, di grandi fattorie con stalle, pollai e pascoli annessi. La coppia che mi ospitava aveva otto figli di cui cinque sparsi tra Australia Stati Uniti e Inghilterra. Gli altri tre, più o meno miei coetanei, penzolavano dal divano del soggiorno al pub e sostanzialmente oziavano a spese dei genitori.

Il papà di famiglia, Dan, professione fattore, rientrava da lavoro più o meno all’ora in cui io mi svegliavo per fare colazione. Ritrovavo lui e sua moglie Nuala in cucina, intenti a friggere enormi rashers, come gli irlandesi chiamano il più comune bacon, su una piastra trasudante oli e grassi atavici. Dan, in tenuta da lavoro – maglioni stracciati, pantaloni coi buchi e le pezze e una gran porzione di merda di vacca spalmata su gomiti e polsini – si distingueva dalla moglie per l’abitudine di non usare il cucchiaino per prendere la marmellata e spalmarla sulle fette di pane tostato. Perché usare un rozzo cucchiaino, del resto, quando ci sono le dita delle mani, che sembrano fatte apposta per questo? E perché usare il tovagliolo poi, quando il maglione sporco di merda di vacca è lì per questo?

Essendo io a quel tempo impedita nella lingua, imbranata nei rapporti e in definitiva sprovveduta e incapace, non riuscii a districarmi da un luogo che si rivelò ben presto essere bellissimo nell’aspetto ma limitante e ristretto in tutto il resto. Ci misi settimane solo per capire che a pranzo nessuno cucinava e che doveva essere usanza comune quella di semplicemente andare in cucina e mettere sotto i denti la prima cosa che trovi in frigo: un cetriolo, un pezzo di formaggio, una barretta di cioccolato. Quando compresi anche che non c’erano autobus che mi portavano in città per trovare un lavoretto, conoscere qualcuno, fare qualcosa, qualunque cosa, mi ritrovai a trascorrere le mie giornate guardando la televisione, facendo lunghe passeggiate serali con un bellissimo labrador che chiamavo creamydog, andando a correre per sbollire rabbie represse e lontane. Un paio di volte tornai a casa stralunata e sconvolta perché mi avevano rincorso e quasi azzannato dei cani delle fattorie circostanti. In quei casi creamydog scappavarivelandosi un vigliacco. Qualche volta aiutavo Dan e Nuala nel lavoro entusiasmante della fattoria.

Imparai così a mungere le mucche, raccogliere le uova, e dar da mangiare ai conigli. Due volte mi chiesero di portare la macchina, e fare da apri-pista per le mandrie che mi seguivano. La prima volta feci cadere la macchina nel fossato sulla sinistra, la seconda volta presi in pieno dei rovi e strisciai tutta la fiancata. Una volta i figli di Dan e Nuala mi chiesero di aiutarli a portare le mandrie da un recinto all’altro. Mi misero al centro di un crocicchio e mi dissero: “Tu stai qui. Noi ora arriviamo con questo centinaio di mucche. Tu devi farle andare a destra, non dietro di te. Hai capito? Mi raccomando, non dietro di te, deviale a destra!”

Voi avete mai avuto a che fare con delle mucche? Sembrano tanto bonarie e innocue, ma non lo sono per niente. Sono gigantesche, ti fissano con occhi enormi lucidi e inquietanti, sono ingombranti e imprevedibili. Io ricordo che mentre stavo lì, al centro di quel crocicchio, mi sentivo minuscola e terrorizzata, e che sentivo da lontano, avvicinarsi sempre di più, con foga e velocità, il rumore di zoccoli impazziti e muggiti angoscianti. Ma voi l’avete mai sentita muggire una mucca. La mucca non fa mu. La mucca geme, strilla, urla. Io udivo, agghiacciata, gli urli sinistri di questa mandria eccitata in cerca di nuovi pascoli ed erba fresca, e che si lanciava in corsa verso di me. E io. Io dovevo deviare la loro corsa. Io dovevo fermarle e dirigerle verso destra. Io. Con la mia forza e il mio coraggio.

Arrivarono. Mi ignorarono. Andarono tutte dove non dovevano andare. La mia presenza al centro del crocicchio fu del tutto inutile. Del resto, chi era quel pazzo che si aspettava il contrario.

Ora a rivedermi lì, al centro di quel crocicchio ad attendere spaventata l’arrivo di cento mucche all’assalto, penso che quella doveva essere una perfetta metafora per quello che era la mia esistenza a quel tempo, smarrita in mezzo a persone di cui non capivo la lingua, atterrita all’idea che la vita mi raggiungesse e mi calpestasse.  Fu un bene che poi lo fece.

Wild Montana skies

La pineta stamattina era una distesa di neve bianca, puntellata qui e là di stralci di rami sradicati durante le notti di vento.  La pineta è una parentesi della Roma romana, un fazzolettone di terra incoltivata, con discese e salite, arbusti e alberelli, che inaspettatamente si srotola nel bel mezzo di due quartieri trafficati, tra un semaforo e un altro.  Qui niente panchine, ogni tanto una sedia di metallo appoggiata ad un albero. Come ai Jardins du Luxembourg. In settembre, quando il caldo e l’inquietudine di fine estate impedivano di rimanere in casa, venivo a sedermi in una di quella seggiole di metallo a leggere Guerra e Pace e ascoltare i grilli. Così queste quattro parole – settembre, grilli, Tolstoj, pineta – vanno ora per mano nella geografia delle parole che addolciscono la mia permanenza qui.

Stamattina, il rumore dei piedi affondati nella neve,  le grida dei bambini su slittini improvvisati con materassini e pezzi di cartone, il sibilo degli sci di qualche ironico sportivo, mi ha riportato mille anni lontano da qui. Mentre chiudevo gli occhi e assaporavo il tepore del sole sul viso, mi ha colpito qualcosa in pieno viso. Pensavo fosse una palla di neve. Invece no. Era una madeleine.

A quando si era piccolissime, io e mia sorella, e si passavano due settimane a gennaio sulla neve. Lo so che oggi potrebbe sembrare impopolare, ma si passavano a Cortina, dal momento che la mia famiglia, quando noi eravamo piccolissime, si trattava molto bene. Poi siamo decaduti, abbiamo dimenticato molte cose, abbiamo cambiato pelle e case molte volte. Oggi cerchiamo di raccattare brandelli e pezzettini di quello che eravamo una volta.

Allora era tutto bellissimo ed eravamo felicissime, io e mia sorella. Ricordo il colore della neve, giallino o rosa pallido a seconda dell’anno, con quelle mascherine da provette sciatrici addosso, e il loro inconfondibile odore di gomma. Tutto il mondo era giallino o rosa pallido in quelle sciate lunghe pomeriggi. Le manopole che non tenevano mai abbastanza caldo. Gli scarponi rossi di Tecnica, i ricci bagnati e scomposti che uscivano da sotto cappelli di lana. Il calore del sole sulle panchine della baita. Io che cantavo come una pazza mentre scendevo col mio stile di piccola della famiglia che lasciava alla sorella maggiore il compito e la responsabilità di quella brava negli sport. A me, non me ne fregava niente. Mi bastava fare la scema e cantare con un po’ di neve in bocca. Ogni tanto mi lasciavo cadere per terra. Per farmi male. Per farmi coccolare. Per riposarmi un po’. Cadevo anche da ferma. In quel trenino fatto di tre persone che scendevano in fila indiana, con mio padre che a ogni curva ripeteva, come un mantra: punta il bastoncino, e via! , l’ultima della fila ero sempre io, con il naso rosso e le braccia aperte come ad abbracciare l’aria.

Le parole. Le parole ricordano tutto. Ricordano più di quanto sia in grado di fare io. Le parole hanno conservato il batticuore di quei giorni, l’euforia e la bellezza. Le parole cristallo, faloria, socrepes, tofane, valbadia, isidoro (il nostro cattivissimo maestro privato), portano in sé il colore della neve che brilla al sole, o il grigiore di una giornata di bufera, la leggerezza di uno ski lift facile facile o il terrore di una seggiovia a seggiolini singoli sospesa nel vuoto, la velocità di una pista verde, e l’asprezza, la lentezza complicata di una pista rossa, o nera. Quanta paura a volte.

Poi in macchina, tornando all’albergo, ci si toglieva i calzettoni e le calze, ci si metteva comodi e si guardavano dal finestrino le ombre che si allungavano mentre le solite cassettine, quelle adibite ai viaggi in montagna, suonavano quelle canzoni che per me rimarranno sempre indissolubilmente legate a quella macchina, quelle montagne così belle, quei viaggi.

Vi prego, portatemi a sciare. Prometto, sto buona.