La codina svizzera

Il soggiorno germanico ha avuto una sua codina svizzera, giusto cinque giorni per poter dire che anch’io ho fatto vacanza (i soggiorni parentali non valgono come vera vacanza). I fatti rilevanti sono stati i seguenti:

– le due settimane germaniche sono state distensive, simbiotiche, patologiche in questo modo tutto nostro femminile di entrarci nella mente in forma complicatissima e non so fino a quanto salutare di contemporaneamente amica sorella figlia mamma. Salutarci è stato come sbalzare improvvisamente l’una fuori dal corpo dell’altra, un dolore e un sollievo insieme.

– l’Irlanda, la Sardegna d’inverno e ora la Svizzera mi fanno sospettare un’inaspettata tendenza bucolica: a quanto pare i luoghi verdi, mucca-forniti – con o senza campanaccio – e i paesaggi verticali – ondulati o appuntiti che siano – rilassano molto, procurano buon umore, appetiti vari, energia positiva a grande voglia di fare.

– Molte delle mie frasi in territorio franco-svizzero suonavano più o meno così: “quando stavo in Sud America”, “quando andavo a sciare”, “quando ho fatto il cammino di Santiago”, “quando abitavo da sola”, etc. la qual cosa ha provocato probabilmente odio diffuso e generale nei miei confronti, ma anche un raro senso di onnipotenza e megalomania da parte mia.

– ho rispolverato l’amato francese dopo anni e anni e anni di negligenza. Qualcuno mi ha detto che lo parlo quasi senza accento… cosa probabile visto che snocciolo una parola ogni quaranta secondi. Quando arrivo alla fine di una frase, la conversazione è già morta da un pezzo e la gente è già andata a dormire. Bisogna anche dire che alla boulangerie dopo aver sciorinato il mio francese per prendere una quiche, mi hanno detto: forse è meglio se parliamo inglese…

– in armonia con la tendenza di queste ultime settimane, anche la vita di cantone è stata contrassegnata da violenti scoppi d’ira, improvvisi e brevi come temporali di fine estate. Il meccanico dice di non preoccuparmi, è parte del processo. Io cerco di non preoccuparmi, anche se i ricettacoli di tali ire danno segni di cedimento.

Incontri e occasioni perdute

Stamattina sono andata al dipartimento di Soziologie a consultare alcuni libri. Me li sono tenuti alla fine perché erano gli ultimi della lista e questi due giorni di lavoro prima di partire li voglio dedicare a leggere alcuni articoli. Ho chiesto informazioni al bibliotecario della sezioni USA BIBL, un signore con dei grossi occhiali da vista e una maglietta bianca sui cui c’era scritto: ‘Jews who love Jesus’. Mi ha mostrato dove si trovavano i libri sull’Irlanda. Ho fatto delle fotocopie. Poi mi ha portato allo scaffale in cui si trovavano dei testi su Jewish Cultural Studies che mi servivano. Mi ha chiesto: ah ma allora ti interessi di ebraismo? Gli ho risposto di sì. Mi ha sorriso, mi ha mostrato la maglietta. ‘Sì ma non sono ebrea’. Gli ho spiegato in breve l’argomento della tesi. Era interessato, mi ha offerto il suo aiuto per la ricerca bibliografica. Parlava a voce alta, gli studenti seduti ai tavoli hanno fatto: shhhh.

Gli ho chiesto di dov’era. Mi ha detto “Sono tedesco. I miei hanno avuto qualche problema una settantina di anni fa, ma sono sopravissuti, mio padre era tedesco e mia madre era austriaca, e a un certo punto ho dovuto decidere se prendere la cittadinanza tedesca o austriaca. Ho scelto di rimanere in Germania”. E ha fatto una risatina ironica. Si vedeva che aveva voglia di
chiacchierare, anche se evitava in tutti i modi di guardarmi negli occhi.

Vedete, ho finito di leggere Jean Améry da pochi giorni, la scelta della patria, l’identità, la memoria sono cose di cui leggo tutti i giorni. Sulla pagina. Non mi capita poi di ascoltarle davvero da un bibliotecario incontrato per caso.Lo scrivo qui perché voglio ricordarmelo.

Avrei voluto molto chiedergli altre cose, o per lo meno ascoltare ciò che aveva da dire, prolungare la conoscenza di qualche minuto, chiedergli aiuto per la bibliografia, non so. E invece sono sempre la solita. Taglio corto. Sono gentile, sorrido, ma non mi sbottono. Non so dare risposte lunghe, non so mettere le persone a loro agio. Mi imbarazzo e metto gli altri in imbarazzo.

Gli ho stretto la mano, gli ho detto il mio nome. Lui mi ha detto il suo. Sono andata a consultare i miei libri.
Quando sono ripassata da lì non c’era più.

Un dolce sottofondo

Sono arrivata in biblioteca verso le dieci, nella piccola saletta di studi postcoloniali dove non c’è mai quasi nessuno. Seduta al grande tavolo c’era una ragazza dei Caraibi, assorta nel suo studio, davanti a sé il computer e una pila di libri sulla letteratura caraibica. Accanto a lei, disposta ordinatamente, una coperta di lana viola, un lenzuolino di lino bianco, e un muretto di libri a mo’ di barriera. Sul lenzuolo disteso sopra il tavolo, ne intravedevo solo i piedini, un neonato di quattro, cinque mesi, che se ne stava buono buono, scalciava e lanciava urletti, e guardava incantato la mamma che studiava.

La giornata è cominciata bene.

Il giusto squilibrio

Mi trovo momentaneamente a soggiornare in una calda cittadina nel mezzo della Germania, attraversando in sandali e maniche corte le stradine fintamente medievali che portano al centro. Prendo l’autobus e vado in biblioteca, una biblioteca grandissima che apre alle otto e chiude a mezzanotte, dove le fotocopie costano 3 centesimi e dove si possono scannerizzare libri interi nella propria chiavetta usb a 1 cent la pagina. E’ il paradiso di noi piccoli  dottorandi sfigati che passiamo le vacanze studiando. Ogni tanto mi arrivano dei messaggi di parenti e amici: Buone Vacanze! mi dicono. Non hanno capito che passare le giornate dentro una biblioteca a studiare, in Germania come in Italia, non è esattamente vacanza.

Che poi voi mi direte, ma tu non eri un’anglista? e in Germania, che ci sei andata a fare? E avete pure ragione, perspicaci come siete. In Germania ci sono andata perché le fotocopie costano meno, e poi fa caldo e la sera si passeggia a maniche corte, e perché i libri, che li prenda in Irlanda, o in Germania, sempre quelli sono.

Io e la mia amica siamo due mostri. Quando ci mettiamo a studiare, non ci ferma nessuno, siamo due carriarmati, due soldati. Io non mi fermo nemmeno a fare pausa, rimango seduta tre, quattro ore allo stesso tavolo, e mi dimentico di tutto. Studio e basta. Poi arriva l’ora del pranzo, e allora ci scateniamo. Parliamo, parliamo parliamo, fitto fitto, pare che non parliamo con qualcuno da dieci anni, pare che dobbiamo raccontarci tutta la vita, e in effetti ce la raccontiamo, ci analizziamo, psicanalizziamo, ci spieghiamo le tesi, i libri che abbiamo letto, le teorie su cui ci basiamo, parliamo di professori, di uomini, di capelli, di cibo. Parliamo senza fermarci un secondo, prendiamo a malapena il respiro, andiamo in apnea. Prendiamo il caffè, ci rimettiamo a studiare.

La sera, poi, è fatta per chiacchierare ancora, senza tregua. E’ molto piacevole. Io, mi sa che durante l’anno parlo troppo poco, poi con la mia amica con cui vado all’estero mi sfogo.

Oggi ho scoperto che i tedeschi mentre studiano si tolgono le scarpe, e poi girano per la biblioteca a piedi nudi, come se nulla fosse. Domani lo faccio anch’io.