LV1KDB

Oggi a scuola una ragazzina di seconda media mi ha dato una letterina. E’ la prima letterina che ricevo da uno dei miei bambini, in tre anni di onorata carriera in questa scuola. La bambina che me l’ha data e che in realtà dimostra circa dieci anni più di me, in realtà non mi sopporta. Oggi quando ho detto che mercoledì prossimo non ci sarò perché accompagno in uscita un’altra classe è scattata dal banco esultando: “Evviva!” quando poi abbiamo fatto un esercizio del libro e doveva dire se preferisce l’inglese o la matematica ha detto: “Matematicaaaaaa, English is boring!!!”

Al pranzetto mentre parla con i suoi compagni scatta puntualmente questa scena. Sta per parlare, mi guarda, si ferma, e ad alta voce, scandendo bene le parole, dice: “Non posso dirtelo, c’è la professoressa”.

Lei è l’unica bambina verso la quale ho sviluppato un’antipatia personale. Devo stare attentissima ad essere equa e imparziale. Per fortuna che è molto brava. Non mi era mai capitato.

La letterina consiste in un post-it tutto colorato e con vari cuoricini disegnati, e un cuoricino di carta colorato di rosso.  Sul post-it, indirizzato a: X la prof. dolce e gentile, c’è scritto:

Prof. Le voglio tanto bene. E’ una prof. formidabile e molto paziente con me; anche xk’ ce ne vuole di pazienza cn me.

Sul cuoricino c’è scritto:

L.V.1.K.D.B.   L.V.T.B   Le voglio tanto bene.

LV1KDB non me l’aveva mai detto nessuno. Quasi quasi ci ho messo un po’ per decifrarlo. Specialmente quel xk’. Ma non sottilizziamo. La prima letterina della carriera bisogna festeggiarla.

La cosa inquietante però, è stato che finita la scuola, alle 14, in sala professori, la letterina era scomparsa. L’ho cercata dappertutto, in borsa, nelle tasche, in mezzo ai libri, nel registro, niente. Torno nella classe, pensando ma possibile che l’ho dimenticata? Non c’è. Torno giù, continuo a cercare. Ma possibile, mi dico? Torno per la seconda volta nella classe vuota, e solo allora la ritrovo per terra, accanto alla cattedra.

Il mio inconscio ultimamente lascia pezzi di sé dappertutto.

Femmine dove siete?

– Professoressa! Mi giustifico per oggi, non ho fatto i compiti per casa.

– E come mai non hai fatto i compiti, Francè, c’hai fatto nel weekend? (mi sbraco linguisticamente quando sono in classe).

– Sabato avevo la partita di calcio.

– M.

– Domenica i miei genitori mi hanno portato con loro a casa degli amici di papà.

– M. E non potevi organizzarti e farli venerdì pomeriggio?

– Venerdì non ho potuto.

– E come mai?

– Venerdì mi sono rilassato.

– Ah. ti sei rilassato.

– Sì. Ho giocato al computer e ho guardato la tv tutto il pomeriggio.

– …

La preside oggi mi ha detto: “Uh come ti sei sciupata, uh, sei proprio distrutta sei, magra poi, ti vedo male, proprio male”. E per fortuna che stamattina mi ero fatta pure la toletta. Sì la toletta.

Donne! che si fa in questi casi? HELP!

Si accettano consigli

A quanto pare, il pesante e macchinoso ingranaggio che mi vede coinvolta nell’accompagnamento di uno scrittore in giro per la città elastica, all’insaputa di me, anzi malgrado me e i miei vari tentativi di boicottaggio e auto-boicottaggio, si è messo in moto, e con esso incubi, ascelle bagnate, balbettio, ansia accompagnata da apici di esilarante onnipotenza alternati a baratri di disperata angoscia.

Devo sviluppare delle strategie di sopravvivenza per: a) sopravvivere, appunto; b) socializzare con il suddetto scrittore possibilmente con delle ascelle asciutte e bene odoranti; c) portare a termine i miei compiti di accompagnatrice senza scossoni o traumi, dunque farlo arrivare all’albergo, al teatro dove presenterà e in giro sano e salvo, possibilmente vivo e con tutte le ossa al loro posto, il che, nella città elastica, non è poco.

La prima strategia a cui ho pensato è la seguente: Bere. Sì, lo sapete, bere sviluppa le abilità di socializzazione, abbassa i freni inibitori e dunque l’imbarazzo la paura l’ansia, rende simpatici e loquaci. Con me funziona. Anche se quando sono ubriaca parlo molto bene il francese, che non mi aiuta molto con un autore inglese. Funziona quasi sempre. Cioè  quando mi trovo in una situazione in cui già sto a mio agio. Se invece bevo per non sentirmi a disagio non funziona più, anzi mi ritrovo generalmente in situazioni imbarazzanti, angoscianti, da incubo. Per esempio, una volta che ho bevuto per non sentirmi a disagio con delle persone che conoscevo poco, sono svenuta, il che non mi è sembrata una buona strategia di socializzazione. Insomma, che ne sappiamo noi, metti che bevo e poi gli vomito addosso mentre lo accompagno a teatro, poi?

A meno che a partire da oggi stesso non mi metta  a provare diversi tipi di alcool, per vedere quale bevanda mi rende socievole senza dannosi effetti collaterali e senza grossi pericoli per l’incolumità mia e del nostro scrittore.

Il secondo aspetto nefasto del bere, però, è il fatto che devo portarlo in giro. Lo sapete voi che io ho abitato un anno in quella città lì, e dopo otto mesi, ancora sbagliavo strada per andare a casa mia? Sì, a casa mia. Il senso dell’orientamento è un altro bel problema, e se bevo, io credo che a teatro non ci arriviamo, magari ci facciamo una bella chiacchierata, ma al teatro la sera del suo evento, non ci arriviamo.

Infatti, oltre a sapere cosa dirgli, io dovrò prepararmi molto bene su dove andare. Mica è facile quella città lì!

Poi lo sapete che oltre a non avere senso dell’orientamento spaziale, io non ho nemmeno quello temporale? Ve l’ho detto che l’anno scorso sono andata a un convegno sugli studi irlandesi all’Irish College a Roma. Era di sabato, mi sono svegliata presto per arrivare, avevo sonno ma ci sono andata lo stesso. Sono arrivata e ho messo in crisi il ragazzo della portineria che non ne sapeva niente.  E perché non ne sapeva niente? Ma perché era un convegno dell’anno prima, ovvio! Non mi ero accorta nel volantino, che si parlava del 2010, non 2011…

Insomma, capite nelle mani di chi lo mettono questo scrittore qui? Nelle mie, rendetevi conto.

Io non mi fiderei se fossi in loro.

Ho mangiato cibo thailandese, cibo messinese e una focaccia con la Murphy’s

In questi giorni si sono versati su di me litri e litri di alcol, a condire proposte gastronomiche audaci e solleticanti.

Per cui ho passato la domenica pomeriggio cospargendo cenere sul mio capo e facendo bucati.

Comunque ho fatto anche altre cose. Sono andata a teatro, ho scorso fantasmi del passato che preferivo non vedere e adottato manovre ardue e complicatissime per non essere vista di rimando, manovre che si sono rivelate totalmente inutili nel momento in cui, scendendo i gradini del teatro all’uscita, un uomo è caracollato rovinosamente su di me, attirando l’attenzione di tutti i presenti, compresi i fantasmi, su di me e sul mio tentativo di passare inosservata. No, non mi sono rotta niente, grazie.

In farmacia me l’avevano detto che contro il protagonismo represso non ci si può fare nulla, viene fuori anche quando uno non vuole.

La settimana a venire riprende la transumanza verso nord. Quindi, se incontrate una che a seconda del momento: legge studia e sottolinea; oppure: corregge compiti di inglese; oppure:  guarda compulsivamente fuori dal finestrino; oppure: strappa le carni a morsi a qualcuno, non preoccupatevi, sono io.

Vado a produrre una cena da un frigorifero vuoto, ciao.

Di corridoi, soffitti e angoli bui

Io quando ero piccola facevo un gioco che camminavo per il lungo corridoio delle case dove abitavo (tutte le case della mia infanzia erano case vecchio stile con un lungo corridoio, lunghissimo per me che ero piccola), guardando il soffitto attraverso uno specchio che tenevo in mano. In questo modo, mentre camminavo mi sembrava in effetti di stare camminando a testa in giù, sul soffitto. Mi immaginavo allora che mia sorella nel cercarmi mi trovasse all’improvviso  a camminare con non-chalance appesa al soffitto di casa. Mi piaceva quella sensazione. Ogni tanto lo faccio ancora.

Anche se poi l’altra notte  ho sognato che appesa al soffitto di casa non c’ero io che passeggiavo ma una tarantola nera e pelosa che dormicchiava penzoloni sul lampadario.

Nei giorni della neve sono rinvenuti in questa casa due oggetti strategici: il primo è uno spremi agrumi. Era nascosto in una credenza della cucina sospetta di essere una colonna portante della casa, e che quindi non viene mai aperta. E’ possibile che dentro ci siano nascosti tra una scatola di bicchieri e una pentola,  chissà quali altri tesori inesplorati. Il secondo è una stufetta elettrica, rinvenuta anche questa in uno dei buchi neri di questa casa, angoli bui e misteriosi dove l’uomo ancora non ha posato né piede né sguardo, e cioè l’armadio a muro. Anche la stufetta si è rivelata un dono del fato, visto il freddo di questi giorni e visto che in cucina non c’è il termosifone. Tanto appena arriva la bolletta della luce verrà nuovamente dismessa e dimenticata in un angolo.

Comunque oggi ho fatto la mia prima spremuta di arance dopo anni e anni di astinenza. E’ stato bellissimo.

Wild Montana skies

La pineta stamattina era una distesa di neve bianca, puntellata qui e là di stralci di rami sradicati durante le notti di vento.  La pineta è una parentesi della Roma romana, un fazzolettone di terra incoltivata, con discese e salite, arbusti e alberelli, che inaspettatamente si srotola nel bel mezzo di due quartieri trafficati, tra un semaforo e un altro.  Qui niente panchine, ogni tanto una sedia di metallo appoggiata ad un albero. Come ai Jardins du Luxembourg. In settembre, quando il caldo e l’inquietudine di fine estate impedivano di rimanere in casa, venivo a sedermi in una di quella seggiole di metallo a leggere Guerra e Pace e ascoltare i grilli. Così queste quattro parole – settembre, grilli, Tolstoj, pineta – vanno ora per mano nella geografia delle parole che addolciscono la mia permanenza qui.

Stamattina, il rumore dei piedi affondati nella neve,  le grida dei bambini su slittini improvvisati con materassini e pezzi di cartone, il sibilo degli sci di qualche ironico sportivo, mi ha riportato mille anni lontano da qui. Mentre chiudevo gli occhi e assaporavo il tepore del sole sul viso, mi ha colpito qualcosa in pieno viso. Pensavo fosse una palla di neve. Invece no. Era una madeleine.

A quando si era piccolissime, io e mia sorella, e si passavano due settimane a gennaio sulla neve. Lo so che oggi potrebbe sembrare impopolare, ma si passavano a Cortina, dal momento che la mia famiglia, quando noi eravamo piccolissime, si trattava molto bene. Poi siamo decaduti, abbiamo dimenticato molte cose, abbiamo cambiato pelle e case molte volte. Oggi cerchiamo di raccattare brandelli e pezzettini di quello che eravamo una volta.

Allora era tutto bellissimo ed eravamo felicissime, io e mia sorella. Ricordo il colore della neve, giallino o rosa pallido a seconda dell’anno, con quelle mascherine da provette sciatrici addosso, e il loro inconfondibile odore di gomma. Tutto il mondo era giallino o rosa pallido in quelle sciate lunghe pomeriggi. Le manopole che non tenevano mai abbastanza caldo. Gli scarponi rossi di Tecnica, i ricci bagnati e scomposti che uscivano da sotto cappelli di lana. Il calore del sole sulle panchine della baita. Io che cantavo come una pazza mentre scendevo col mio stile di piccola della famiglia che lasciava alla sorella maggiore il compito e la responsabilità di quella brava negli sport. A me, non me ne fregava niente. Mi bastava fare la scema e cantare con un po’ di neve in bocca. Ogni tanto mi lasciavo cadere per terra. Per farmi male. Per farmi coccolare. Per riposarmi un po’. Cadevo anche da ferma. In quel trenino fatto di tre persone che scendevano in fila indiana, con mio padre che a ogni curva ripeteva, come un mantra: punta il bastoncino, e via! , l’ultima della fila ero sempre io, con il naso rosso e le braccia aperte come ad abbracciare l’aria.

Le parole. Le parole ricordano tutto. Ricordano più di quanto sia in grado di fare io. Le parole hanno conservato il batticuore di quei giorni, l’euforia e la bellezza. Le parole cristallo, faloria, socrepes, tofane, valbadia, isidoro (il nostro cattivissimo maestro privato), portano in sé il colore della neve che brilla al sole, o il grigiore di una giornata di bufera, la leggerezza di uno ski lift facile facile o il terrore di una seggiovia a seggiolini singoli sospesa nel vuoto, la velocità di una pista verde, e l’asprezza, la lentezza complicata di una pista rossa, o nera. Quanta paura a volte.

Poi in macchina, tornando all’albergo, ci si toglieva i calzettoni e le calze, ci si metteva comodi e si guardavano dal finestrino le ombre che si allungavano mentre le solite cassettine, quelle adibite ai viaggi in montagna, suonavano quelle canzoni che per me rimarranno sempre indissolubilmente legate a quella macchina, quelle montagne così belle, quei viaggi.

Vi prego, portatemi a sciare. Prometto, sto buona.

Piccole amenità quotidiane, 3

L’altro giorno sono venuti a casa il muratore (nevicava anche dentro casa) e l’amministratrice, che è una vicina di casa che si è inventata amministratrice da quando l’ex amministratore è fuggito portandosi via cinquanta mila euro. Mentre l’amministratrice parlava – e credetemi, parla – di soldi, gestione, tubature, bollette, capacità di relazione, riunioni di condominio, mentre parlava, non mi degnava nemmeno di uno sguardo. Non parlava con me. Non mi considerava proprio. Solo a un certo punto mi ha guardato, e si è rivolta indiscutibilmente a me. Mi ha detto: c’è da pulire i calcinacci.

Oggi mentre ero in cucina che cucinavo, una macchina ha cominciato a suonare insistentemente il clacson. Io stavo girando il sugo (zucchine e guanciale) e lavando i piatti contemporaneamente. Io abito al terzo piano. Suonava il clacson. Ho pensato: ce l’avranno con me?

Questi due giorni di vacanza a sorpresa regalataci da Alemanno, tanto più graditi per il fatto che nonostante la neve e i disagi etc, c’era il sole e qui si respirava un’euforia e un’allegria contagiose, questi due giorni sono stati meravigliosi. Mi sono riposata. Mi è parso, finalmente, di ricominciare a vedere le cose con il loro colore e il loro contorno, nitide, trasparenti, variopinte. Mi sono riposata ma ho fatto un sacco di cose. Mi pareva di avere tempo per tutto. Sono perfino andata al negozio a fare lo shopping, con un sorriso da qui a qui. Ma ci pensate, ho lavato il bagno, no dico, ho lavato il bagno.

Alemanno, ancora un giorno e qui facevo pure un figlio!

Comunque, ieri ho ricominciato la scuola.

Poi volevo anche dirvi che è vero, mi hanno rubato. Lo so che l’ho già detto qualche tempo fa, ma qui non si fanno progressi: io vado al supermercato, passo la cassa e suona l’allarme. Al che l’occhio di bue si accende su di me e calano le luci tutt’intorno, si sente in lontananza la sirena della polizia, dei carabinieri, dei gendarmi, dei vigili del fuoco, e dell’acqua alta, mille occhi si rivolgono accusatori verso di me e il coro fuori scena comincia a cantare in un crescendo infuriato: LADRA! Io sudata e con le orecchie rosse come peperoni tiro fuori l’odiato oggetto del delitto, colpevole del misterioso allarme, cioè il mio portafogli (è un anno che mi capita, sempre, ho fatto un’indagine accurata), al che le luci si riaccendono, tutti si riaddolciscono tranne me, e il mistero è risolto. In realtà il mistero non si è risolto affatto, visto che un paio di mesi fa, per questo motivo ho cambiato portafoglio, senza nessun miglioramento. Oggi ho suonato di nuovo.

Devono avermi rubato da piccola.

Ho sognato.

Ho sognato che tra i blog famosi e bellissimi che leggo, ce n’era uno che parlava di me.

Diceva:

“Sì, bagnarole la leggo, ma non è che sia proprio il mio genere, anzi devo dire che ultimamente mi ha proprio stufato”. E continuava così per almeno un paragrafo. E dove c’era il mio nome, non mi aveva nemmeno linkato (almeno sarebbero andati tutti a vedere chi cavolo è questa bagnarole. Invece no).

Mi sono svegliata di soprassalto. Come con un incubo. Erano le 4.50 di mattina.

Passo troppo tempo qui dentro.

Poi.

Visto che ultimamente trascorro le giornate chiuse in casa a studiare e leggere e lavorare vestita con una tuta di pile, calzettoni fascia per i capelli e pulcione di lana tre taglie più grande di me brutto e caldo, e visto che quando vado su in terra veneta mi devo mettere tre paia di calzettoni, otto sciarpe due cappelli e ho la faccia sempre tutta rossa e piena di rughe da freddo e le scarpe grosse e più che camminare rotolo, allora stamattina che – badate – qui a Roma c’è il sole con un teporino e la neve che brilla mentre si scioglie e il cielo limpido, questa mattina che – badate – la scuola è chiusa, per andare in banca e in posta, mi sono vestita da strafiga.  Ho perfino comprato  uno smalto. Rosso.

Non ho incontrato nessuno, ovviamente. Nemmeno il fruttarolo che ogni tanto mi propone di sposarlo.

In farmacia me lo dicono sempre che non fa bene alla salute identificarsi con le eroine tragiche

Circa un mese fa ho ascoltato una meravigliosa lezione su Le Affinità Elettive di Goethe.

A me veramente non è piaciuto molto, con quelle atmosfere rarefatte, e l’impenetrabilità dei personaggi, e tutta l’allegoria e i rimandi e i riflessi. E nessuno dei personaggi mi è rimasto particolarmente simpatico. Eduard l’ho odiato. Però in queste settimane ho pensato molto a Ottilie.

Allora. voi immaginatevi questo mondo chiuso e perfetto: il castello, il giardino, una coppia soddisfatta, completa e matura. Immaginatevi questa arcadia, questo mondo bucolico, ma nello stesso tempo privo di slancio vitale, malinconico, depresso. In questo quadretto ordinato di felicità, narrato con questo linguaggio irreprensibile, glaciale e univoco, dove i personaggi passano il tempo a dare ordine e sistemare la casa il giardino la strada (e la casa è una tipica ossessione dei depressi, vedi me), irrompe l’elemento che sconvolge tutta questa maniaca perfezione.

L’elemento è Ottilie, ma il suo entrare in scena viene anticipato da una serie di rimandi alla sua persona che la descrivono e preparano il lettore alla sua comparsa. Uno di questi rimandi è una lettera che la zia Charlotte riceve da un professore del collegio che la giovane Ottilie frequenta, e che probabilmente si è un po’ invaghito di lei. Quello che dice questo professore è molto interessante. Dice “Se c’è una ragazza con cui occorre cominciare dal principio, questa di sicuro è lei. Ciò che non segue da quanto precede, non lo capisce. Si mostra inetta, persino cocciuta davanti a una cosa facilmente comprensibile della quale non coglie le connessione con il resto. […] In questo suo lento progredire rimane indietro rispetto alle compagne che, dotate di capacità affatto diverse, corrono avanti, capiscono tutto con facilità, anche ciò che è privo di connessioni, lo rammentano con facilità e sanno poi servirsene agevolmente. […] Certo, è singolare: sa molte cose, e alla perfezione; solo se la si interroga sembra non sapere nulla”.

Insomma, Ottilie non è un’idiota come sembra. Ottilie appartiene ad un mondo diverso da quel mondo bucolico e perfetto del castello, Ottilie ha una intelligenza diversa: non capisce per ragionamenti, capisce per intuizioni, ha un’intelligenza legata al mondo sensibile, emotivo, lei non capisce le leggi delle cose, lei capisce le cose.

Capite dove sto andando a parare?

” Professoressa, lo so che lei mi ha fatto una domanda banale e ovvia, ha ragione, ma non si dimentichi che io.. ecco, ehm, io ho un’intelligenza emotiva, legata alle intuizioni, io di fronte alle domande ovvie sbarello, sì, ma non perché sono un’idiota, ma perché io non capisco le leggi delle cose, io, capisco le cose. Come Ottilie. Sì. Ottilie”.

Non credo ci sia bisogno di ricordare che Ottilie fa una fine tragica.

Come sono autoreferenziale. In farmacia me lo dicono sempre che non fa bene alla salute identificarsi con le eroine tragiche, ma al farmacista gli rispondo sempre: “Che vuole, noi, quelle della mia generazione, siamo cresciute con Candy Candy”.

E poi alla fine ci ricado sempre: la prossima volta vi parlo di Rosaura (chi è Rosaura? vediamo chi lo sa…:-))