Bibi

E’ una giornata uggiosa e monotona, grigia e piovosa.  Mi attende questa sera una cena familiare, con tutti i miei sette parenti riuniti  attorno all’antico tavolo dove un tempo si sedeva mia nonna a capotavola con la sua zazzera arancione e con le sue battute piccanti e poco consone alla sua veneranda età.

Non è passato molto tempo in questa famiglia da quando lo scatto generazionale ha prodotto in poco tempo quattro, no cinque, facciamo sette se consideriamo le ramificazioni da famiglia allargata, sette marmocchi dagli occhi grandi e le mani paffute, quasi tutti con lo stesso nome. Dovete sapere che nella mia famiglia si utilizzano quasi esclusivamente due nomi. Uno è il nome di mio padre, mio nipote, il primo marito di mia zia, il secondo marito di mia zia, il nipote del secondo marito di mia zia, e la lista potrebbe andare ancora avanti. L’altro nome è il mio, e anch’esso si tramanda di generazione in generazione.

Ma fino a pochissimo tempo fa, la piccola della casa, la pupa, per così dire ero io. E il mio nome, quell’inflazionatissimo nome di cui vi dicevo, nei primi anni della mia vita, non è stato mai usato. In casa, fin dalla nascita, io ero Bibi. Bibi, la piccola. Bibi, è piccola lei. Bibi, non la sgridate, che è piccola.

A cinque anni, forte della mia età e dei miei capricci, nella casa dei miei nonni, dove si passavano le vacanze e che ora non c’è più, non come la ricordo per lo meno, ho portato in casa la prima rivoluzione: io non sono Bibi. Io sono grande. Non sarebbe stata l’ultima. Mi sono buttata a letto a strillare e scalciare e agitarmi, piangendo lacrime, chissà, forse vere. Io sono grande, io non mi chiamo Bibi. Dopo due ore, hanno capitolato. Andando a cena con fare maestoso e ‘da grande’, nonni, genitori e cugini mi guardavano con aria intimorita e riverente. Non è più Bibi, è grande. Mi circondava un’aura di regale grandezza, di nuovo battesimo. Se per dirmi: su mangia, si sbagliavano e dicevano su, mangia Bibi, si mordevano le labbra, correggendosi subito. Ah no, non Bibi, è grande lei.

Dopo un po’, smisero di chiamarmi Bibi del tutto, non si sbagliavano più. Per un certo tempo, ho rimpianto questo soprannome, essere piccoli a volte fa comodo. Andò a finire nel dimenticatoio e ne  rimane traccia solo come scritta dietro alcune vecchissime foto in cui sorrido in un passeggino con dei sassolini in mano.

Ho conquistato il mio nome con le unghie e con i denti, come del resto tutto ciò che oggi mi appartiene.

Wild Montana skies

La pineta stamattina era una distesa di neve bianca, puntellata qui e là di stralci di rami sradicati durante le notti di vento.  La pineta è una parentesi della Roma romana, un fazzolettone di terra incoltivata, con discese e salite, arbusti e alberelli, che inaspettatamente si srotola nel bel mezzo di due quartieri trafficati, tra un semaforo e un altro.  Qui niente panchine, ogni tanto una sedia di metallo appoggiata ad un albero. Come ai Jardins du Luxembourg. In settembre, quando il caldo e l’inquietudine di fine estate impedivano di rimanere in casa, venivo a sedermi in una di quella seggiole di metallo a leggere Guerra e Pace e ascoltare i grilli. Così queste quattro parole – settembre, grilli, Tolstoj, pineta – vanno ora per mano nella geografia delle parole che addolciscono la mia permanenza qui.

Stamattina, il rumore dei piedi affondati nella neve,  le grida dei bambini su slittini improvvisati con materassini e pezzi di cartone, il sibilo degli sci di qualche ironico sportivo, mi ha riportato mille anni lontano da qui. Mentre chiudevo gli occhi e assaporavo il tepore del sole sul viso, mi ha colpito qualcosa in pieno viso. Pensavo fosse una palla di neve. Invece no. Era una madeleine.

A quando si era piccolissime, io e mia sorella, e si passavano due settimane a gennaio sulla neve. Lo so che oggi potrebbe sembrare impopolare, ma si passavano a Cortina, dal momento che la mia famiglia, quando noi eravamo piccolissime, si trattava molto bene. Poi siamo decaduti, abbiamo dimenticato molte cose, abbiamo cambiato pelle e case molte volte. Oggi cerchiamo di raccattare brandelli e pezzettini di quello che eravamo una volta.

Allora era tutto bellissimo ed eravamo felicissime, io e mia sorella. Ricordo il colore della neve, giallino o rosa pallido a seconda dell’anno, con quelle mascherine da provette sciatrici addosso, e il loro inconfondibile odore di gomma. Tutto il mondo era giallino o rosa pallido in quelle sciate lunghe pomeriggi. Le manopole che non tenevano mai abbastanza caldo. Gli scarponi rossi di Tecnica, i ricci bagnati e scomposti che uscivano da sotto cappelli di lana. Il calore del sole sulle panchine della baita. Io che cantavo come una pazza mentre scendevo col mio stile di piccola della famiglia che lasciava alla sorella maggiore il compito e la responsabilità di quella brava negli sport. A me, non me ne fregava niente. Mi bastava fare la scema e cantare con un po’ di neve in bocca. Ogni tanto mi lasciavo cadere per terra. Per farmi male. Per farmi coccolare. Per riposarmi un po’. Cadevo anche da ferma. In quel trenino fatto di tre persone che scendevano in fila indiana, con mio padre che a ogni curva ripeteva, come un mantra: punta il bastoncino, e via! , l’ultima della fila ero sempre io, con il naso rosso e le braccia aperte come ad abbracciare l’aria.

Le parole. Le parole ricordano tutto. Ricordano più di quanto sia in grado di fare io. Le parole hanno conservato il batticuore di quei giorni, l’euforia e la bellezza. Le parole cristallo, faloria, socrepes, tofane, valbadia, isidoro (il nostro cattivissimo maestro privato), portano in sé il colore della neve che brilla al sole, o il grigiore di una giornata di bufera, la leggerezza di uno ski lift facile facile o il terrore di una seggiovia a seggiolini singoli sospesa nel vuoto, la velocità di una pista verde, e l’asprezza, la lentezza complicata di una pista rossa, o nera. Quanta paura a volte.

Poi in macchina, tornando all’albergo, ci si toglieva i calzettoni e le calze, ci si metteva comodi e si guardavano dal finestrino le ombre che si allungavano mentre le solite cassettine, quelle adibite ai viaggi in montagna, suonavano quelle canzoni che per me rimarranno sempre indissolubilmente legate a quella macchina, quelle montagne così belle, quei viaggi.

Vi prego, portatemi a sciare. Prometto, sto buona.

Piacere (no, per una volta non è una questione di autostima, è il piacere, quello vero)

Ci sono alcuni piaceri che oggi 26 dicembre, appena in tempo prima della fine dell’anno 2011, vorrei rivalutare, ricordare, e tenere in considerazione per i momenti bui dell’anno che verrà:

– il piacere di stendersi sull’erba fresca, verde, morbida. il piacere dei fili d’erba nelle orecchie e sul viso, il morbido sotto di sé, il profumo di terra, il palmi delle mani in giù, che toccano il verde e lo bevono tutto (nb: sinestesia in corso). questo ricordo lo ripesco dal mio viaggio a santiago de compostela, non è un ricordo del 2011, lo so, lo riesumo dal lontano 2008, ma non importa, perchè lo sentivo qui dentro che bussava e dovevo per forza dargli posto qui. Un pomeriggio, dopo i nostri 25 chilometri giornalieri, lo zaino in spalla, le caviglie gonfie, il piacere di arrivare e stendersi sull’erba per un po’, finchè il corpo non ricomincia a rispondere, con qualche chiacchiera qui e là, e la curiosità di guardare volti nuovi. Un libro tra me e te.

– il piacere dei mandarini, quelli veri, non le clementine del mercato, un chilo un euro. No, i mandarini veri, quelli con i semi, quelli aspri e odorosi, quelli con la pelle grossa e butterata. I mandarini di natale, i mandarini di inverno. i mandarini che dopo fai le facce. 

– camminare nel bosco nel tardo pomeriggio. L’odore dei funghi, le foglie secche, il sole del tramonto arrossa le foglie e i tronchi degli alberi, il rumore del ruscelletto, la sicurezza pesante del dove mettere i piedi per non cadere. Quando appoggi un piede e non scivola. terreno sicuro, passo stabile, puoi appoggiare tutto il peso. Ieri. Colline toscane, piccolo sentiero boaschivo, passeggiata inaspettata e meravigliosa. non vi posso dire la frustrazione di stare in un posto nuovo e passare il tempo in casa a mangiare. Pranzo cena pranzo cena parenti parenti parenti. E poi, leggera illuminata ora di libertà, nella luce rossa del tramonto, una passeggiata silenziosa pregna di odori e rumore di passi e di foglie secche. E di ricordi non miei ma che aleggiano tutti nell’aria, di zii e di altre passeggiate, più lontane, di infanzia di ginocchia nude e graffi sul viso.

– il caffé. Quello buono. non lo so. Sarà che ultimamente non bevo molto caffé, e quello che bevo è buono ma leggero, e non ci faccio poi tanto caso. Ma ieri ho bevuto due caffé che quando li ho bevuti ci ho fatto caso. Una sorpresa, un soprassalto, un sussulto. Il caffé. Arabica, amaro, intenso sapore di caffè. Caffè. Napoli Lamerica Latina il Caffè.

– Il corpo che si muove, che suda che si contorce, che si piega che ruota che si allunga. Il corpo in movimento, No, no pensate chissà che. E’ una cosa tutta sportiva che sto descrivendo. Il corpo. I muscoli il respiro i tendini. Il ritmo la coordinazione. Il corpo che corre. Il corpo che nuota, che scia. Il corpo che balla. Da troppo tempo sto ferma. Sto seduta a una scrivania a leggere. Le spalle, le ossa, i muscoli, tutto grida: corri! Corri! Ti prego ascoltalo nei mesi che verranno, vorrei potrei dire il mio nome perchè ne avrei bisogno qui ora. Tu, io. Corri! Portatemi a ballare. Andiamo a balllare e scoprirete una donna (?) felice. Dimentica di tutto, una donna felice.

– il piacere della poesia. Non ne scrivo mai, non temete. Non potrei avere questa presunzione. Ma a volte, il piacere delle parole che si innamorano, che stanno bene una dopo l’altra, che si somigliano che fanno rima, le parole in armonia. Il piacere delle parole assonanti consonanti tintinnanti. la poesia. Non deve essere scritta sul blog , non c’è bisogno che qualcuno la veda. ma ogni tanto, una poesia, una parola innamorata.

 

O tu Blogger (petizione) e muratore poeta

O tu blogger che ogni tanto passi di qui, grazie!
O tu blogger che ogn tanto passi di qui e che ti chiami 403, grazie!
Sì perchè se non era per 403 io mica lo sapevo che siamo a rischio chiusura blog e se non era per 403 che ci avvertiva nel commento al post precedente, io mica mi accorgevo e perdevo tutto perdevo.
Allora dovete sapere che io oggi dovevo studiare tutto ma tutto il giorno, perchè il giovedì non devo andare a scuola e oggi non ho preso il treno, allora studiavo. Ma ora no. Ora io mi sono salvata tutto il blog su Word, perchè sono antica, e ancora non l’ho capito come si fa a trasportarsi il blog su un’altra piattaforma, blogspot o word press, ora vediamo. Ora 403 ci spiega tutto
O tu blogger che passi di qui e ogni tanto commenti! Tu dove vai? Blogspot o WordPress?
Io vengo con te.
Non lasciatemi sola.
Comunque sono venute 94 paginette di Word, con commenti e tutto quanto. Non ce ne sono proprio tanti di commenti, eh, perchè questo è un blog senza pubblicità,  però quelli che ci sono sono tutti belli. tranne quello dell’anonimo che mi ha detto di scrivere il mio numero su bagno dell’autogrill. Quello non l’ho capito. Però gli altri sì.

Poi volevo anche dirvi che oggi è venuto il muratore. Aveva la eRRe moscia e ha detto: sono disoRRientato. Poi ha detto: questa casa è proprio un cesso. Però non ce l’aveva con me che avevo messo tutto in ordine e fatto le pulizie perchè sapevo che veniva. Ce l’aveva con il proprietario della casa, che lo sapete no che questa casa dove abito sta un po’ così, agonizzante, con il sistema elettrico traballante e gli spifferi alle finestre e i muri che trasudano acqua e gocciolano quando piove. Ed è per questo che è venuto il muratore infatti. E ha fatto un bel buco sul muro. Poi l’ha richiuso con la malta scura. Scommetto che ora rimane così per un paio di anni. E insomma, è per questo che lui dice questa casa è un cesso. Ha ragione.
Però io mi chiedevo: ma quando viene il muratore, uno cosa fa? lo guarda lavorare così, rimanendo in piedi in silenzio a guardarlo come una specie di voyeur? oppure se ne disinteressa completamente e si fa gli affari suoi? oppure si mette gli occhialetti e fa le domande intelligenti (questa è malta o stucco? perchè l’acqua goccia? mi insegna?)?

tutta tonica

Sto leggendo un libro che mi serve per scrivere una tesina. Non vi dico di che parla la tesina, sennò vi addormentate, è già tardi, e pochi ascoltano ancora questa flebile voce che a malapena sopravvive. Sulla copertina del libro c’è un pezzo di corpo di ape spiaccicata. Me ne sono accorta adesso, che il libro si è chiuso. E un libro verdino, l’ho preso dalla biblioteca. Qualcuno, invece di studiare, l’ha sbattuto contro un’ape, poverina. Chissà cosa gli aveva fatto, poverina. L’ha presa di profilo comunque, perchè il corpo spiaccicato, o l’ombra che ne rimane ormai, è di profilo. Io comunque di questo libro dovevo leggere solo una decina di pagine. Almeno oggi, poi domani due capitoletti, poi basta. Mica lo devo leggere tutto, per la tesina. Poi sapete che faccio? prendo anche la tesi di laurea, che l’argomento è quello, qualcosa centra sempre, e l’introduzione la prendo da lì. Tanto la tesi di laurea, l’ho scritta io, che vi credete, mica è copiare, e se è copiare, copio da me stessa, e, non vi preoccupate, me lo do il permesso, eccome se me lo do.

Che poi non è copiare, è: siccome per la tesi ho già letto un milione di libri, invece di rileggerli, riprendo la sintesi che ho già fatto nella tesi, che io mi sono laureata sette anni fa, non è che ora posso ricordarmi tutto.

E niente, e poi me ne vado a letto, che sto finendo di leggere, di ri-leggere scusate, i Dubliners di Joyce, che mi sa è la terza volta che li leggo, però ero troppo piccola allora, ero alle superiori, non ci capivo niente, e mi era sembrato un libro pensatissimo, e invece ora me lo rileggo e penso, però  invece è bello, non è pesante, e poi essendo ambientato a Dublino, in questi giorni mi sembra di essere tornata lì e rivedo tutte le strade: George Street, Dame Street , Eustace Street, Henry Street e così via.

Poi anche oggi mi ero ripromessa che avrei scritto di nuovo, che sennò l’autostima mi si abbassa troppo, e hai visto che ho scritto. E poi mi ero ripromessa che sarei andata in piscina, che è un mese che non ci vado, e oltre ad abbassarmi l’autostima, mi si abbassa il conto che ho pagato tre mesi di piscina e non sono riuscita molto ad andarci. Ebbene, oggi ci sono andata e ho fatto: udite udite 60 vasche. No perchè di solito ne faccio 40 al massimo 50, oggi ne ho fatte 60. Sarà che ultimamente ci ho un po’ di ansietta si vede che ho bisogno di scaricare un po’ di energie in surplus, ecco perchè, perchè, anzi, dopo quelle 60 sarei andata avanti altre 40 non mi fermava più nessuno ormai. Però ormail erano le tre e finiva il nuoto libero, e poi dovevo tornare a casa a lavare il bagno che gridava vendetta da una settimana e poi dovevo studiare. E insomma oggi ho anche lavato il bagno.

Sarà che questa settimana non devo andare su a Venezia, sarà questa ansietta che però sta ancora nel retro della testa. Sarà anche che a casa sono sola fino a domenica, che l’uomo è a londra e devo far passare presto il tempo (magari sola! e i coinquilini dove li metti?). insomma qualcosa sarà che oggi sto così, tutta tonica.

Leggo leggo leggo…leggo tantissimo non faccio altro che imbottirmi di parole altrui…leggo i romanzi, la critica ai romanzi, le recensioni, le recensioni del guardian del new york times dell’independent i pareri di blogger sconosciuti i pareri dei blogger dei giornali importanti poi mi imbatto in un racconto su mcsweeney allora me lo leggo poi mi imbatto in un articolo che non centra niente però me lo leggo poi mentre leggo mi ricordo che sono anni che vorrei leggere quell’altro romanzo allora me lo faccio imprestare lo cerco in biblioteca lo compro mi leggo anche quello poi mi faccio i riassunti dei romanzi mi annoto le cose interessanti le frasi più belle ci faccio i collegamenti con le altre cose che ho letto però non fatte bene, no, solo una annotazione nel mio quaderno degli appunti: tipo questo romanzo mi ricorda questo, oppure, questo tema lo ritrovo qui e qui, vedere questo e questo, cose così, che mi dico, poi, quando sarò nel pieno delle cose, nel cuore del lavoro, allora saprò dove andare a cercare, invece quando mi troverò nel cuore, allora mi dirò, peccato che non ho scritto di più quando avrei dovuto farlo, quando ne avevo il tempo, ma io il tempo ora in realtà non ce l’ho, cioè ce l’ho e non ce l’ho perché il pensiero viaggia più veloce della lettura e non riesco a stare dietro a tutte le idee a tutte le letture e già c’è una lista inimmaginabile di libri da leggere e pacchi di fotocopie da leggere, ma c’è anche il tumblr da guardare e il google reader da leggere e il blog da aggiornare e le lezioni da preparare e i compiti da correggere e in realtà, la verità, la verità è che io spero, che a un certo punto questa voracità, questa brama senza controllo, questa fame senza fondo, si plachi almeno un po’ e che lasci un po’ di spazio al silenzio.

E che nel silenzio, piano, nascano, delle parole, mie.

Come tratti i tuoi libri?

Mi è capitato di trascorrere qualche giorno a Verona in compagnia di mia madre. Per fare un po’ di cordiale conversazione, una mattina le ho detto:
– Mamma guarda questo libro, ancora devo iniziarlo e già è tutto liso, spiegazzato e orecchiuto…
Mia mamma mi guarda con fare interrogativo e replica:
– Embè? Qual è il problema? I libri DEVONO essere così, devono essere usati, spalancati, scritti, sottolineati, spiegazzati, maltrattati…usati insomma, guarda!
Prende un librino dalla borsa e comincia a squartarlo, spalancarlo, spiegazzarlo, torturarlo pensavo io guardandola.
– Non capisco dove sia il problema… cosa vuoi, sbirciare le pagine da una minuscola fessurina per non creare la piega sul dorso? Ma il dorso è fatto apposta per essere piegato, guarda! (prende il libro e lo rivolta a rovescio). I libri vanno usati e dunque rovinati, si fa così, tutta la nostra famiglia ha sempre fatto così, è così e sarà sempre così (per tutti i nostri giorni, nei secoli dei secoli Amen). Qual è il problema?”
Allora ho capito che, oltre al fatto che fare cordiale conversazione con mia madre è sempre un po’ complicato, dicevo, ho capito anche che è una questione genetica questa della manutenzione dei libri, un fattore ereditario. Nel mondo esistono due categorie di persone: i manutentori ordinati di libri e i manutentori disordinati di libri. Io rientro nella seconda categoria, e dunque non ho scelta, è destino, sarò sempre una lettrice disordinata e i miei libri saranno sempre spiegazzati e unti… I manutentori disordinati di libri, per quanto ci si impegnino, non hanno alcuna speranza contro la minaccia delle pieghe, delle copertine lise e degli angoli sbeccati. Io quando esco di casa ripongo il mio amato libro in una bustina, possibilmente un po’ rigida, delicatamente con cura e attenzione. La bustina viene lentamente deposta nella mia borsa, penne e matite vengono accuratamente estratte dall’interno del libro. Ognuna di questa precauzioni è completamente inutile, quando in metro prendo il mio libro, sarà già un po’ ingiallito, appallottolato, sgualcito. Gli angoli saranno ormai diventati palline di mollica di carta, la copertina già tutta rigata, tra una pagina e l’altra ci saranno già briciole e granelli di sabbia. Poi per quanto mi sforzi di non creare la pieghetta sul dorso, eccola lì, ancor prima di arrivare a pagina tre, quella crepetta fine ma decisa, che corre lungo tutto la lisca verticale del mio libro-pesce.
I manutentori ordinati di libri non conoscono di questi drammi: i loro libri sono impeccabili, lisci, gli angoli appuntiti, le pagine stirate, la carta bianca. In poche occasioni ho potuto vedere dei veli di scotch a ricoprire puntine di angoli che minacciavano di scomporsi. Il loro scotch è sottile, trasparente, perfettamente disteso sulla parte infetta. Nemmeno si vede. Dà quel tocco di importanza, di cura in più. Quando provo io a mettere lo scotch sugli angoli, dopo poco diventa giallo, si stacca, fa le bolle. I manutentori ordinati di libri, quando comprano i libri di seconda mano, anche quelli sono perfetti e apparentemente inusati. Le pagine ingiallite, in mano loro, assumono un aspetto solenne, antico, rispettabile. I miei libri di seconda mano mi sono sempre arrivati già sull’orlo dello sgretolamento.
Nella scala da uno a dieci dei manutentori disordinati di libri io penso di essere un sette abbondante, l’impronta genetica materna deve aver giocato un ruolo molto forte, (mia mamma deve essere un dieci, e lì ha giocato molto l’impronta paterna: mio nonno sottolineava i libri con la penna rossa e quella blu facendo delle ondine sotto ogni parola). Mia sorella deve aver preso di più da mio padre allora, perché lei, per quanto legga e sottolinei e si scarrozzi due figli in giro per la città con i libri appresso, non li riduce mai in poltiglia come faccio io. Quando vivevamo insieme non me li faceva leggere i suoi libri, a volte avevamo copie separate dello stesso libro, la mia e la sua.
Di manutentori ordinati, credo di avere conosciuto dei nove, nove e mezzo. Loro quando mettono il libro nella borsa, non hanno nemmeno bisogno della bustina protettiva, i loro libri si auto proteggono, il gene della manutenzione ordinata li custodisce.

Geografia delle parole

Ci sono parole che esistono in un solo tempo, poi scompaiono, si abissano, si estinguono.
Perdono il loro valore, la loro ragion d’essere, la loro specificità. Si utilizzano per qualche tempo, poi si dimenticano, non si pronunciano più. Ci sono parole legate alla mia infanzia che non ho mai più pronunciato, che dopo un certo tempo, non sono più servite. Rese inutili dai numerosi trasferimenti, dall’età che cambiava, dalle geografie modificate, queste parole si sono inabissate nel flusso del tempo, solitarie reminiscenze di una mappatura passata e definitavamente conclusa. Queste parole sono: follonica, schiaccia, piazza verdi, diaccioni, ti, rivadeglietruschi, vipera, pavoletti, maschera d’oro e maschera d’argento (nel mondo dell’infanzia le maiuscole non esistono).
Ognuna di queste parole era come un nodo da cui si dipanavano migliaia di trame sottili, di immagini precise, di storie fantastiche, ad esse si affiliavano una serie di altre parole, come in una ragnatela dai fili dorati, fatati, magici.
La parola follonica, come un mollusco la sua conchiglia, si trascinava addosso i suoi correlati: mare, faro, ristorante sul mare, souvenir a forma di gondola, amici di papà, bambina che non ha più la mamma. Di questa parola in seguito non è rimasto più nulla, la risacca se l’è portata via. Ora Follonica è un cartello blu appeso ad una stazione nel lungo viaggio roma termini-massa centro su treno regionale. E’ una parola silenziosa, non rievoca più nulla. Ha perduto la sua connotazione, la magia, il potere.
Le parole “maschera d’oro e maschera d’argento” non sono solamente parole dell’infanzia, sono un mondo a parte, un linguaggio speciale e segreto che solo due persone potevano intendere, io e mia sorella. Era il sorellese, quella lingua femminile e bambinesca, intima e incantatoria, dai poteri ipnotici e paranormali, era quella lingua che permetteva a due bambine di 3 e 4 anni di trasformarsi in due esseri dai superpoteri, eroiche e onnipotenti, e che comparivano misteriosamente in casa, in momenti in cui le due sorelle complici misteriosamente scomparivano.
Unica testimone, spettatrice involontaria e obbligata, mia madre. Mamma, il centro di ogni parola, di ogni spettacolo, di ogni incantesimo praticato entro le mura di casa, l’osservatrice attraverso i cui occhi ogni cosa acquistava un senso speciale e meraviglioso.
Era anche quello il tempo delle prospettive caricaturali, dal basso verso l’alto, il tempo
dello sguardo in su, della testa ad altezza lavandino, del piede numero 25 e degli zoccoletti rossi.
“Mamma dov’è C.?” ” Non lo so…C.!, C.! dove sei?, mmmm, non la vedo…ma tu le somigli… chi sei?” “Sono maschera d’oro”. “E io sono maschera d’argento!”. La vocina a pappagallo era sempre la mia, instancabile imitatrice della sorella maggiore, una spanna più alta di me, diletta e meravigliosa, fonte di magnifiche scoperte, tutrice quattrenne, e bersaglio di dispetti di ogni tipo, che mi avrebbe insegnato ad andare in bici e a nuotare, a leggere e andare sui pattini, che pazientemente avrebbe sopportato la sorellina che diceva “ti” invece che “sì” e che in macchina, puntualmente, le si addormentava sempre sulle gambe.

ho sonno

A volte di notte la mente culla poesie, accosta parole e suoni che risalgono la china tortuosa dei pensieri sfatti del dormiveglia. Io penso come sono belli questi suoni, come si accordano con il buio di questa notte, e con il sonno che striscia silenzioso, come spuma di mare che nella risacca mi avvolge tutta. Come sono belli, dovrei scriverli penso, domani, penso, li scrivo. Poi non ne rimane mai nulla, non una conchiglia, non una pietruzza, non un granello di sabbia. La spuma del mare se li è portati via. Non tornano, i pensieri belli, i pensieri del sonno. Restano a dondolare nella risacca del mare e il mattino dopo la corrente se li è portati via.