Here comes the sun (notate il luminoso ottimismo di questo titolo che invece di soffermarsi sull’angoscia esistenziale del presente, prefigura un futuro vicino di liberazione e spensieratezza)

Discussioni di alto livello tra me e la bottiglietta d'acqua

Discussioni di alto livello tra me e la bottiglietta d’acqua

– Il giorno della discussione è minacciosamente vicino, alla soglia direi, foriero dei più terribili incubi notturni, notti insonni, tachicardie insopportabili, attacchi d’ansia e senso di morte e devastazione universale. L’avvicinamento del giorno temuto è stato accompagnato da studio folle ed agitato, ma soprattutto da picchi di nervosismo e angoscia esistenziale, trovando infine una definitiva valvola di sfogo nello studio della preside, una mattina, dove, con occhi colmi di lacrime e singhiozzi mal trattenuti, la dottoranda fiammiferaia ha dato sfogo al peggio di se stessa, terminando la sua disperata condanna a morte con un: “Non ce la faccio. Dammi due giorni di permesso per studiare.” Giorni che le sono stati accordati con forti abbracci, incoraggiamenti e consolazione e soprattutto con un accomodante e cauto: “Stai tranquilla,” che come un mantra, colleghe, preside e vicepreside tutte mi stanno ripetendo, con voce sottile e suadenti. Temono un esaurimento nervoso.

Non sanno che sono sempre così.

– la dottoranda fiammiferaia è molto in ansia, soprattutto ha paura che l’emozione la rincoglionisca e non sappia più nè parlare inglese nè ricordare cosa ha scritto sulla tesi. Però si è presa un meraviglioso vestito, un cappottino rétro, e soprattutto un cappello a bombetta che, una volta terminato l’incubo, farà innamorare tutta Venezia.

– La dottoranda fiammiferaia si è anche fatta un regalo di dottorato. Per sancire la libertà appena conquistata, nonostante l’esito dell discussione, la nostra andrà a sciare, un’attività che la riporta indietro nostalgicamente ai ricordi di infanzia e che ha intensamente desiderato per molti molti anni.

– La dottoranda fiammiferaia ha una lista di cose che vorrà fare quando sarà finalmente libera, quando lavorare solo a scuola le sembrerà pura vacanza, quando i weekend non dovrà stare alla scrivania a studiare a scrivere. Spera tanto che non siano solo illusioni.

pole position e sceneggiate napoletane con toni da operetta

Ieri sono andata in palestra. Ero triste. Gli occhi rossi e due profonde occhiaie e le labbra chiuse, tese. Il ballerino colombiano se n’è accorto e mi ha fatto un cenno mentre saltellavamo tutti quanti, tra una piroetta e un’altra, e il cenno più o meno significava: “tutto bene? noto con dispiacere che oggi non saltelli felice come una gazzella come fai di solito, ma ti vedo un po’ moscetta e quegli occhi rossi mi fanno pensare che tu oggi abbia avuto una giornata un po’ nera, o un po’ grigia e così mi sembri, un po’ grigia. Ma spero che la composizione saltellante di oggi ti aiuti a dimenticare le pene della giornata.” Ecco, così diceva il cenno che mi ha fatto durante una piroetta e un saltello. E un movimento di bacino, certo, che quello ci sta sempre bene.

Che poi questo cenno l’ho potuto notare perché, sapete, ho guadagnato la seconda fila. Sì. Ero partita dall’ultima, ho guadagnato la seconda. Quasi in pole position oramai. Qualche volta addirittura la prima. Lo sapete questo cosa vuol dire. Pensate alla formula uno. Capirete.

E poi alla fine mi ha chiesto il nome. Che io è più di un anno che vado in palestra da lui. Ma lo sapevo che lui il mio nome mica lo sapeva. Sono sempre così invisibile. Mi confondo dietro la famosa colonna. E ora che ho guadagnato la seconda fila, dopo più di un anno mi ha chiesto il mio nome. Che io gli ho detto: Bagnarole mi chiamo, anche se non gli ho detto proprio così, che non è proprio questo il mio nome. E lui alla fine mi ha detto “Brava. Ciao Ba’!. …. Gnarole.” Che non ha suonato proprio così, perché non è questo il mio nome, ma più o meno così, con la prima sillaba e poi dopo una pausa, anche la seconda, nel caso non avessi capito che era proprio me che salutava.

E comunque gli occhi rossi ce l’avevo sempre per questa storia di questo vestito che devo andare a vedere, ma non tanto per il vestito quanto per tutto ciò che il vestito implica, che una persona che si riconoscerà mi ha detto, Brava! ora comincia la vera passione, e con ciò intendeva la passione nel senso evangelico del termine, e dopo la giornata di ieri, io gli ho dato proprio ragione, che siccome è arrivata anche mia mamma dalla palude a cercare il vestito o meglio tutto ciò che il vestito implica, e si sono create come dire delle congiunture astrali piuttosto negative per me, con tutto un codino di strascichi melodrammatici, con punte da sceneggiata napoletana, che pare che questo tono da sceneggiata napoletana abbia in qualche modo scolpito le modalità comunicative della mia famiglia, anche se noi, poi, napoletani, non siamo proprio.

Mi dicono che sono distratta

Mi dicono che sono svampita, che non ascolto quando mi parlano, che ho la testa tra le nuvole. Mi dicono che mi distraggo facilmente, che mi assento, che mi perdo in pensieri lontani e sconnessi. Mi capita di risvegliarmi a metà discorso e riprenderne le fila con domande snervanti e fastidiose: chi? di cosa si sta parlando? ma quando è successo? con il collo proteso in avanti e gli occhi come fessure. Mi dicono: attenta come sempre. Mi dicono: ecco che si è svegliata. Mi dicono: l’ultima ad arrivare. Castigo la mia curiosità ripromettendomi di non chiedere più, di abituarmi a perdere le parole che non ho ascoltato. Ben mi sta, mi dico.

Ma voglio spiegarmi. La mia, non è distrazione, la mia non è ‘ha la testa tra le nuvole’. La mia è la magnifica riprova, la conferma, che il principio di adattabilità umana a fattori esterni ed ambientali, è vera. Sono la riprova vivente che l’esser umano sopravvive in quanto si adatta. Il mio difetto di ascolto, dunque, non può annoverarsi tra i cosiddetti disturbi dell’apprendimento, o disturbi cognitivi e deficit dell’attenzione, essa è anzi una meravigliosa abilità, sviluppatasi in anni e anni di inconsapevole addestramento. La mia, dunque, è l’abilità a non ascoltare, l’abilità ad astrarsi da un contesto di voci, grida, e urla non gradite, e di trasformarle, badate la grandiosità dell’atto, in semplice brusio di fondo, in rumore, di quello che non disturba, e che anzi, a volte, fa addormentare, o concilia il flusso dei pensieri. Ritroverete questo talento, che non è innato, ma costruito, come già detto, sulla spinta di fattori esterni impellenti e, oserei dire, da una condizione ambientale di pericolo, in qualunque bambino che sia cresciuto in un contesto sociale che richiedesse, appunto, la capacità di non ascoltare. Di divergere l’attenzione. Di non sentire.

Dunque o voi insegnanti, quando trovate un discente che non ascolta, prima di punirlo, domandatevi se quell’atto di apparente negligenza non sia in realtà una raffinata strategia di sopravvivenza. Dunque, care colleghe, quando mi vedete astrarmi dai vostri discorsi, pensate che è in atto, in me, il meraviglioso processo della selezione naturale.

Due bottoni

Ieri all’esame scritto di inglese c’erano diversi oggetti interessanti sui banchi dei miei studenti: un santino del Papa, un orsetto, un portachiavi, una ranocchia, una reliquia della beata a cui è intestata la mia scuola, un santino del Papa, un anello con inciso il padre nostro. E così via. Non so se hanno funzionato o se c’è che ormai mi sono talmente abituata a lavorare in codesta scuola che oramai mi sono tarata a dare voti dal sei al dieci, dove sei corrisponde allo schifo più totale ma ormai per me corrisponde alla sufficienza perché sono un’insegnante dalla parte dello studente. Fatto sta che il voto più basso è stato sei più. Poi non lo so, forse dovrei cominciare anch’io a fare uso di questi santini se è vero che funzionano, se non fosse che io i santini preferisco non averceli a casa, che poi se li ho a casa non riesco più a buttarli via, per via che sono cresciuta in una famiglia che se buttavi un santino non so quale disgrazia poi ti capitava, io tengo i santini in un cassetto in camera mia nascosti, un giorno vorrei prenderli e buttarli via tutti. Mia mamma per esempio quando perde qualcosa invoca Sant’Onofrio Pilusu attraverso una preghiera in rima che è piuttosto una filostrocca che comincia così: “Sant’Onofrio Pilusu fascitemi ‘sta grazia”. Mia mamma dice che funziona, poi ogni volta le trova le cose. Tipo perde le chiavi, Sant’Onofrio Pilusu fascitemi ‘sta grazia, la chiavi stavano nella borsa, dove le aveva lasciate. Perde gli occhiali, Sant’onofrio Pilusu fascitemi ‘sta grazia, gli occhiali stavano appoggiati sulla lavatrice dove li aveva lasciati cinque minuti prima. Mia mamma usa il verbo ‘perdere’ ma in realtà intende ‘lasciare’.

Poi ieri sono andata a cena con le mie colleghe, che io mi ci trovo bene con loro e spesso dico peccato che sono solo mie colleghe, che bello sarebbe se fossero anche mie amiche, che l’argomento “amiche” ultimamente diciamo negli ultimi 15 anni è un argomento abbastanza delicato, ve lo risparmio. Sono andata a cena, mi sono fatta anche bella, che a scuola di solito ci vado che sembro una fetecchia, anche se mi faccio la toletta e tutto quanto, ma non c’è speranza, la scuola mi succhia via tutta la luce, entro in quel luogo sono una fetecchia senza luce. A cena è andato tutto bene, mi sono anche divertita diciamo, se non fosse che mentre loro ridevano, si divertivano chiacchieravano e tutte quelle cose normali che si fanno a cena io pensavo: come mi sento triste. Poi queste battute che a loro facevano molto ridere, ma proprio scoppiare a ridere a crepapelle, a me mi facevano ridere un pochino appena due tre secondi poi basta, e poi a un certo punto siccome loro ridevano tanto io no, ho pensato, forse stanno ridendo di me, sennò non si spiegherebbe il fatto che loro ridono io no. E poi dopo il secondo bicchiere di vino io avevo questo desiderio impellente di raccontare i fatti miei,  e dopo ogni fatto mio pensavo ma che cazzo racconti a fare i fatti miei miei quelli che non racconto a nessuno. Devo esser imbecillita pensavo. E poi anche quell’altro discorso che ho fatto alla collega di italiano, che le ho detto, mi sa che ormai sono tarata dal sei al dieci, ma io dico proprio a lei lo devi fare questo discorso, sempre a mettere in dubbio le tue capacità di insegnante, poi per forza la gente non ti prende sul serio, mi sono detta. E poi anche quando la collega di arte dopo che ho detto una cosa mi ha risposto con una battuta secca e un po’ da stronza, io ho pensato ecco era meglio che stavo zitta, era meglio che stavo a casa anzi. Era meglio che le colleghe rimangano tali, che tanto lo sapevi che tu a questo tipo di uscite, tu, non ti diverti per niente. Anzi, dopo sei solo più triste, che ti chiedi cosa hai tu che non va che gli altri si divertono tu no, che gli altri vanno al concerto di madonna tu no, forse è solo il fatto che tu con queste persone che ti stanno tanto tanto simpatiche ma poi non ci stai bene per niente, tu non devi uscirci, lo sapevi già. Come anche il dottorato, tanto bello tanto bello, me mi sembra che mi sento solo molto triste.

Poi ieri dopo l’esame scritto di inglese, la collega che ha fatto assistenza, quella di ginnastica mi ha detto, ora sei più tranquilla? devi stare tranquilla non agitarti , riposati questo weekend. Poi alle due mi ha chiamato la collega di francese mi ha detto, volevo sapere come stavi, come è andata ti ho visto così agitata ieri, devi stare tranquilla. Poi oggi è venuto il proprietario della casa a riscuotere l’affitto, gli ho chiesto se per piacere ci sistema la serranda della cucina che si è rotta, poi ho detto, dov’è il cacciavite, dov’è, l’abbiamo usato ieri, lui ha detto: stai tranquilla, non ti agitare, usiamo qualcos’altro, tranquilla, ora sistemiamo tutto.

Allora ho pensato che seconde me ultimamente, mi sembra che io sono un po’ come Coraline, al posto degli occhi, io ho due bottoni.

Taccuino, bussola e fischietto

Armata di taccuino, bussola e fischietto, sono andata in ricognizione per le calli di Venezia, in cerca dei luoghi dove dovrò scarrozzare lo scrittore alto, sicura di me, sorridente e trasudante self-confidence, magari anche con un bel paio di tacchi. No, con i tacchi no, non esageriamo. Il fischietto era per segnalare la mia presenza, in caso di smarrimento. Manco di senso dell’orientamento, conoscenza approfondita della città e un buon Iphone, ma non temete, ce la farò. Anche se l’unica cosa che riuscirò a trasudare è l’odore un po’ rancido dell’ansia da prestazione.

A parte tutto questo, è stato un giro bellissimo. Ho scoperto rio Marin, che a Punta della Dogana c’è un bambino nudo alto circa due metri che tiene per le zampe una ranocchia a testa in giù, e che ogni cento metri c’è una calle che si chiama Calle del Fruttarol (forse in onore del fruttarolo di Roma che vuole sposarmi) e un ponte che si chiama Ponte Storto.

Poi ho incontrato anche il mio professore di laurea che mi ha visto con il mio taccuino che non è un taccuino, è un blocchetto di fogli spiegazzati, un po’ unti e sgualciti, e impietosito e un po’ schifato anche, mi ha regalato una moleskine. Ora devo passare tutti i miei appunti dal blocchetto alla moleskine, sennò quando mi rivede si offende. Mannaggia.

Oggi è pasqua, mi trovo nel rifugio toscano perché se ogni due giorni non prendo un treno che mi prosciuga delle forze e della volontà, allora non sono contenta. Ho preso pure la multa, credo di essere una delle poche persone che riescono a prendere la multa pur avendo comprato il biglietto. E’ stato un viaggio bellissimo. Martedì torno a Roma, mercoledì vedrete che già dovrò tornare su a Venezia.

Perdonate lo sfoghetto, già mi sento meglio. E buona pasqua. Un giorno mi spiegate perché si fanno gli auguri di pasqua.

Si accettano consigli

A quanto pare, il pesante e macchinoso ingranaggio che mi vede coinvolta nell’accompagnamento di uno scrittore in giro per la città elastica, all’insaputa di me, anzi malgrado me e i miei vari tentativi di boicottaggio e auto-boicottaggio, si è messo in moto, e con esso incubi, ascelle bagnate, balbettio, ansia accompagnata da apici di esilarante onnipotenza alternati a baratri di disperata angoscia.

Devo sviluppare delle strategie di sopravvivenza per: a) sopravvivere, appunto; b) socializzare con il suddetto scrittore possibilmente con delle ascelle asciutte e bene odoranti; c) portare a termine i miei compiti di accompagnatrice senza scossoni o traumi, dunque farlo arrivare all’albergo, al teatro dove presenterà e in giro sano e salvo, possibilmente vivo e con tutte le ossa al loro posto, il che, nella città elastica, non è poco.

La prima strategia a cui ho pensato è la seguente: Bere. Sì, lo sapete, bere sviluppa le abilità di socializzazione, abbassa i freni inibitori e dunque l’imbarazzo la paura l’ansia, rende simpatici e loquaci. Con me funziona. Anche se quando sono ubriaca parlo molto bene il francese, che non mi aiuta molto con un autore inglese. Funziona quasi sempre. Cioè  quando mi trovo in una situazione in cui già sto a mio agio. Se invece bevo per non sentirmi a disagio non funziona più, anzi mi ritrovo generalmente in situazioni imbarazzanti, angoscianti, da incubo. Per esempio, una volta che ho bevuto per non sentirmi a disagio con delle persone che conoscevo poco, sono svenuta, il che non mi è sembrata una buona strategia di socializzazione. Insomma, che ne sappiamo noi, metti che bevo e poi gli vomito addosso mentre lo accompagno a teatro, poi?

A meno che a partire da oggi stesso non mi metta  a provare diversi tipi di alcool, per vedere quale bevanda mi rende socievole senza dannosi effetti collaterali e senza grossi pericoli per l’incolumità mia e del nostro scrittore.

Il secondo aspetto nefasto del bere, però, è il fatto che devo portarlo in giro. Lo sapete voi che io ho abitato un anno in quella città lì, e dopo otto mesi, ancora sbagliavo strada per andare a casa mia? Sì, a casa mia. Il senso dell’orientamento è un altro bel problema, e se bevo, io credo che a teatro non ci arriviamo, magari ci facciamo una bella chiacchierata, ma al teatro la sera del suo evento, non ci arriviamo.

Infatti, oltre a sapere cosa dirgli, io dovrò prepararmi molto bene su dove andare. Mica è facile quella città lì!

Poi lo sapete che oltre a non avere senso dell’orientamento spaziale, io non ho nemmeno quello temporale? Ve l’ho detto che l’anno scorso sono andata a un convegno sugli studi irlandesi all’Irish College a Roma. Era di sabato, mi sono svegliata presto per arrivare, avevo sonno ma ci sono andata lo stesso. Sono arrivata e ho messo in crisi il ragazzo della portineria che non ne sapeva niente.  E perché non ne sapeva niente? Ma perché era un convegno dell’anno prima, ovvio! Non mi ero accorta nel volantino, che si parlava del 2010, non 2011…

Insomma, capite nelle mani di chi lo mettono questo scrittore qui? Nelle mie, rendetevi conto.

Io non mi fiderei se fossi in loro.

Figli di un blog minore.

Stanca come un fazzoletto sporco.
Come un pesante manto di neve.
Come il torcicollo.
Come un banco scritto.
Come una nuvola di gesso sugli occhi annebbiati.
Come un paio di tacchi a fine giornata.
Come un violino scordato.
Come una pagina web che non si carica.
Come il mercato della frutta in chiusura.
Come l’artrite.
Come un vombato dopo la grattatina.

Lo sfoghetto del mese.

Oggi è uno di quei giorni in cui è meglio per il resto dell’umanità che io non tocchi nulla. Dove poso mano, qualcosa si rompe, si frantuma, si sciupa.
Ho l’influ-anzia, e tutti i moccichini sparsi dappertutto in giro per casa. Sono una prodruttrice consapevole di moccichini.
Comunque. Volevo raccontarvi del viaggio in treno di questa settimana.
All’andata ho preso la multa. Beh, la multa sarebbe ammontata a 58 euro, ma la controllitrice impietosita mi ha fatto pagare 8 euro, cioè l’ammontare della tratta che non avevo pagato. Infatto dovevo smontare a Rovigo e invece sono smontata a Padova. Ma non è che volevo fare la furba. E’ che a Rovigo non poteva venirmi a prendere nessuno e ormai il biglietto l’avevo fatto, per cui sono dovuta scendere la fermata successiva. Non è mai successo che ti controllino il biglietto 10 minuti prima di scendere a Padova. Invece l’hanno fatto. Imbarazzo. Macchie rosse sul collo. Voce tremante. Comunque io lo sapevo. Me lo sentivo. Era tutto il giorno che ci pensavo. Oggi prendo la multa.
Questa è stata l’andata.
Il ritorno. Seduta posto corridoio, perchè all’inizio, i primi diciamo 150 viaggi tu prenoti il posto finestrino perchè che bello il paesaggio la poesia etc. Poi quando ti accorgi che hai bisogno di fre la pipì cambiare libro prendere il computer e insomma alzarti più di una volta capisci che conviene il posto corridoio. E così da qualche mese prendo il posto corridoio.
 A Bologna arriva uno che mi fa: io sarei lì, posto finestrino, ma ci vuoi stare tu vero? tu vuoi stare vicino al finestrino vero?

(No, cazzo vuoi? avrei dovuto dirgli).

Inveve ho abbozzato sorrisetto e ho detto Vabeh, sono scivolata accanto nel posto finestrino, in trappola direi, e lui si è seduto al posto mio.
“Piacere Lucio! tu chi sei come ti chiami di dove sei quanti anni fai che lavoro fai che libro stai leggendo cos’è cosa ti piace come trovi il treno quanto hai pagato il biglietto il caffè lo prendi macchiato o ristretto?”
Allora è ufficiale: per me (parlo per me badate) le persone che attaccano bottone in treno sono degli invasori. Perchè, o tu che rompi i coglioni che ti siedi accanto a me, devi presumere che mi faccia piacere parlare due ore e mezzo con te? cosa te lo fa pensare che io abbia voglia di spiattellarti i miei fatti? perchè mi devi imporre la tua presenza per tre dico tre ore in cui io magari ho da fare? perchè devi costringermi a dirti scusi mi lasci in pace e costringermi a diventare io la maleducata e non te che per primo mi hai disturbato?
Poi. Possibile mi devi parlare con la faccia a trenta centimetri dalla mia dico io?
(scusa puoi allontanare la tua faccia dalla mia? ti puzza l’alito. Avrei dovuto dirgli). 
Poi,  gli steretipi si sprecavano:
-ah veneta. mm dunque: i veneti mi pare siano persone chiuse, persone fredde, no? è così vero?
– mah, non saprei mi sembrano generalizzazioni…
– no, no. i veneti sono così.
– poi credimi, non sono per niente rappresentativa come veneta, davvero ci ho solo vissuto a lungo…
– m. invece tu sei proprio veneta.
– …
 E poi.
– tu comunque con quegli occhi chiari e i capelli biondi sei la tipica nordica.
– mah, io veramente… io non ho proprio nulla di nordico, mio nonno era siciliano, i miei di roma, i miei parenti paterni sono meridionali…
– e che c’entra, hai gli occhi chiari.
– ma che vuol dire, ormai non è che chi ha gli occhi chiari è del nord e chi ce li ha scuri è meridionale. non è più così.
– perchè ti arrabbi? ti sei arrabbiata.
– ma no… chi si arrabbia, dicevo solo…
– no, tu ti sei arrabbiata. Beh, puoi anche arrabbiarti resta il fatto: tu sei la tipica nordica, tu sei il prototipo della nordica. Ecco.
– vabeh.
– E’ inutile che ti arrabbi. E’ così.
E’ così. E’ così. Volevo strappargli a morsi quel naso che mi puntava davanti agli occhi (rimandi al desiderio di castrazione? sì sì come volete fate pure)
Volevo scendere dal treno e farmela a piedi fino a Roma pur di non sentirlo più parlare. Invece, sempre dicendo ma no non mi sono arrabbiata (e invece sì! sono incazzata nera, levati dai piedi!) mi sono discretamente messa le cuffiette salvifiche e ho riaperto il mio libro salvifico e mi sono spiritualmente isolata dal tizio invadente.
Certo. Io mi incazzo per nulla. Vero. Mi incazzo con lo sconosciuto del treno che vuole fare due chiacchiere, poverino. Vero. Io ho un problema con le etichette, è evidente. Certo. 
E infatti all’officina ci vado anche per questo. 
Però cercate di capirmi. Io non occupo quasi nessuno spazio. Sono piccola e bassa, non dò fastidio a nessuno. Non parlo se non interpellata.
Il mio spazio vitale è minimo, infinitesimale. Sono la persona più educata dell’universo intero. Tutta la mia formazione, è stata basata sulla buona educazione ahimé. Sono la persona più educata dell’universo. Io al ristorante, prendo la forchetta giusta. Io comincio una frase con grazie e la finisco con scusa, io. Quindi, se tu sconosciuto del treno per nessuna ragione al mondo occupi quella parte infinitesimale dello spazio vitale che mi appartiene – fisico e spirituale e verbale – io mi ti mangio. Io poi faccio finta di niente, non ti dico nulla. Anzi magari ti chiedo scusa io, però tu sappi che ti sei mangiato quella poca poca aria che mi serve per respirare.