Avevo circa vent’anni quando sono tornata in Irlanda. Era quello il periodo dei sacrifici e del mutuo da pagare, soldi in casa non ce n’erano. Per permettermi di fare una vacanza studio mia madre si mise in contatto con amici di amici di amici di amici. Infine trovammo una famiglia che poteva ospitarmi per circa un mese senza dover pagare nulla. Abitavano in campagna, in un paese vicino Cork che si chiamava Carrignavar. Ma che dico un paese, Carrignavar era una viuzza di aperta campagna, puntellata, di tanto in tanto, di grandi fattorie con stalle, pollai e pascoli annessi. La coppia che mi ospitava aveva otto figli di cui cinque sparsi tra Australia Stati Uniti e Inghilterra. Gli altri tre, più o meno miei coetanei, penzolavano dal divano del soggiorno al pub e sostanzialmente oziavano a spese dei genitori.
Il papà di famiglia, Dan, professione fattore, rientrava da lavoro più o meno all’ora in cui io mi svegliavo per fare colazione. Ritrovavo lui e sua moglie Nuala in cucina, intenti a friggere enormi rashers, come gli irlandesi chiamano il più comune bacon, su una piastra trasudante oli e grassi atavici. Dan, in tenuta da lavoro – maglioni stracciati, pantaloni coi buchi e le pezze e una gran porzione di merda di vacca spalmata su gomiti e polsini – si distingueva dalla moglie per l’abitudine di non usare il cucchiaino per prendere la marmellata e spalmarla sulle fette di pane tostato. Perché usare un rozzo cucchiaino, del resto, quando ci sono le dita delle mani, che sembrano fatte apposta per questo? E perché usare il tovagliolo poi, quando il maglione sporco di merda di vacca è lì per questo?
Essendo io a quel tempo impedita nella lingua, imbranata nei rapporti e in definitiva sprovveduta e incapace, non riuscii a districarmi da un luogo che si rivelò ben presto essere bellissimo nell’aspetto ma limitante e ristretto in tutto il resto. Ci misi settimane solo per capire che a pranzo nessuno cucinava e che doveva essere usanza comune quella di semplicemente andare in cucina e mettere sotto i denti la prima cosa che trovi in frigo: un cetriolo, un pezzo di formaggio, una barretta di cioccolato. Quando compresi anche che non c’erano autobus che mi portavano in città per trovare un lavoretto, conoscere qualcuno, fare qualcosa, qualunque cosa, mi ritrovai a trascorrere le mie giornate guardando la televisione, facendo lunghe passeggiate serali con un bellissimo labrador che chiamavo creamydog, andando a correre per sbollire rabbie represse e lontane. Un paio di volte tornai a casa stralunata e sconvolta perché mi avevano rincorso e quasi azzannato dei cani delle fattorie circostanti. In quei casi creamydog scappava, rivelandosi un vigliacco. Qualche volta aiutavo Dan e Nuala nel lavoro entusiasmante della fattoria.
Imparai così a mungere le mucche, raccogliere le uova, e dar da mangiare ai conigli. Due volte mi chiesero di portare la macchina, e fare da apri-pista per le mandrie che mi seguivano. La prima volta feci cadere la macchina nel fossato sulla sinistra, la seconda volta presi in pieno dei rovi e strisciai tutta la fiancata. Una volta i figli di Dan e Nuala mi chiesero di aiutarli a portare le mandrie da un recinto all’altro. Mi misero al centro di un crocicchio e mi dissero: “Tu stai qui. Noi ora arriviamo con questo centinaio di mucche. Tu devi farle andare a destra, non dietro di te. Hai capito? Mi raccomando, non dietro di te, deviale a destra!”
Voi avete mai avuto a che fare con delle mucche? Sembrano tanto bonarie e innocue, ma non lo sono per niente. Sono gigantesche, ti fissano con occhi enormi lucidi e inquietanti, sono ingombranti e imprevedibili. Io ricordo che mentre stavo lì, al centro di quel crocicchio, mi sentivo minuscola e terrorizzata, e che sentivo da lontano, avvicinarsi sempre di più, con foga e velocità, il rumore di zoccoli impazziti e muggiti angoscianti. Ma voi l’avete mai sentita muggire una mucca. La mucca non fa mu. La mucca geme, strilla, urla. Io udivo, agghiacciata, gli urli sinistri di questa mandria eccitata in cerca di nuovi pascoli ed erba fresca, e che si lanciava in corsa verso di me. E io. Io dovevo deviare la loro corsa. Io dovevo fermarle e dirigerle verso destra. Io. Con la mia forza e il mio coraggio.
Arrivarono. Mi ignorarono. Andarono tutte dove non dovevano andare. La mia presenza al centro del crocicchio fu del tutto inutile. Del resto, chi era quel pazzo che si aspettava il contrario.
Ora a rivedermi lì, al centro di quel crocicchio ad attendere spaventata l’arrivo di cento mucche all’assalto, penso che quella doveva essere una perfetta metafora per quello che era la mia esistenza a quel tempo, smarrita in mezzo a persone di cui non capivo la lingua, atterrita all’idea che la vita mi raggiungesse e mi calpestasse. Fu un bene che poi lo fece.