Una giornata come tante altre

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Arrivo a Dublino da sola. Il cielo è azzurro e limpido mentre scendo gli scalini dell’aereo. Mi tolgo la giacca, il giacchino, resto con una maglietta senza maniche bianca.  Prendo l’AirCoach, scendo al Trinity. Ho prenotato una stanza negli appartamenti del College. Passo all’Accomodation Office, mi danno la chiave. Mi portano all’appartamento con un furgoncino. Chiacchiero con lo studente che guida, un ragazzo che studia musica al Trinity. Arrivo alla stanza, mollo i bagagli, mi lavo i denti e riesco. Incontro lo scrittore. Ci vediamo davanti alla Berkeley Library, prendiamo qualcosa a un cafè, e andiamo a stenderci al parco del Trinity. Non c’è una nuvola. Il caldo è confortevole. Distendo le gambe sull’erba verde, poi le tiro su, appoggio la testa sulle ginocchia.

Con lo scrittore parliamo di libri, di teatro, del mondo dell’editoria e del mondo dell’insegnamento. Parliamo anche del mio dottorato, ma io molto abilmente indirizzo il discorso verso altri lidi. Il mio inglese scende giù come un ruscello a primavera. Non sono più io. Scopriamo che due giorni prima abbiamo comprato un libro dello stesso autore semi-sconosciuto italiano, libro che io ho in borsa. Parliamo di Roma. Andiamo a prendere la sua bicicletta, ci salutiamo.

La stanchezza mi appanna i contorni. Passo il resto del pomeriggio a St Stephen’s Green a leggere. Poi mi muovo. Mangio qualcosa al volo, vado al cinema a vedere l’ultimo film di Sofia Coppola. Mi sento parte della città, mi sento del luogo. Non sono una turista. Abito qui. Rientro al Trinity. Passeggio tra i viali e palazzi al buio, deserti, ogni tanto un’ombra passa – forse uno studente, forse un fantasma. Fotografo il buio, fotografo le ombre. Intravedo due piccole volpi che giocano – si fermano, mi guardano. Passa la Dart sopra la mia testa. Parte direttamente da Pearse Station, che luccica di oro nero proprio davanti a me, oltre i cancelli del college. Si allontana la Dart, c’è silenzio. Salgo gli scalini dell’appartamento, entro nella mia stanza. Scatta il lucchetto alle mie spalle.

Bagnarole ballerina in erba

Liffey sleeping

Il meccanico dice che devo assecondare la parte frivola di me, sì proprio lei, quella del rossetto e del movimento del bacino. Anzi, dicono che sia una parte molto simpatica, l’altra sera all’officina ha improvvisato un vero e proprio spettacolino, ancora un po’ e si metteva a fare un balletto di danza moderna davanti ad un pubblico entusiasta e piuttosto parziale. Insomma, dicono sia un vero spasso, ma la me bacchettona si indigna scandalizzata: “Dare corda a quel covo di serpi velenose?!  Lasciarla libera, permetterle di esprimersi? Giammai! Il mondo potrebbe subirne drammatiche conseguenze, dove andremo a finire, o donna immonda e perversa, io ti censuro!” (così la me bacchettona, potete capire la confusione qui dentro).

Ora, essendo la parte bacchettona di me generalmente sovrana del qui dentro, ed essendo io oramai avvezza ad un autocontrollo ferreo e forzato, a volte accade che, in circostanze straordinarie di abbassamento del controllo (che ne so, in Irlanda, di sera, dopo una Guinness), avvengano delle cose incredibili, impensabili, inimmaginabili.

Perché, voi pensavate che a Dublino ci fossi andata per quella importantissima intervista al giovane scrittore dublinese vero? E invece, chi l’avrebbe mai detto, io a Dublino, ci sono andata, per ballare la salsa!

Ebbene sì, il mio maestro di aerobica colombiano sarebbe stato davvero orgoglioso di me, a vedermi volteggiare così, a vedermi roteare il bacino così, sciolta, disinvolta, sensuàl! Sì, perché se trovi un giovane e muscoloso ballerino disposto a soprassedere sul fatto che te di salsa non sai assolutamente nulla e che generalmente sei sciolta tanto quanto una zappa, tale ballerino può fare miracoli, portandoti a vertiginose altezze di prodezza latino-americana. E se come me, ma non ditelo a nessuno, siete cresciuti imparandoti nascostamente i passi da Dirty Dancing, potete capire la portata trasgressiva di tale folle notte dublinese. E pensare che mi ritengo una persona seria e che, in situazioni di consuetudine, la musica latino-americana mi annoia parecchio (ma se c’è il ballerino tutto cambia, interessante).

Dell’intervista con lo scrittore vi parlo un’altra volta, che devo ancora sbobinare quel paio d’ore di chiacchierata. Sono sicura che l’operazione di trascrizione, che sto consapevolmente ritardando, si trasformerà in una vera e propria collezione di gaffe e cavolate varie che ho detto e fatto e che sfrutterò qui per divertire il mondo intero.

La mia Irlanda è così, ogni volta mi regala qualcosa. E se l’ultima volta, un paio di anni fa, Dublino mi aveva accolto con molta pioggia, e mi aveva infastidito, in quel luglio pieno di turisti saccenti e di pseudo-vichinghi rumorosi, e di scolaresche italiane, questa volta mi ha salutato con ben più affetto. Stranamente asciutta, si è attardata a farmi compagnia con le sue fresche serate, i double-decker giallo blu, i nomi familiari delle strade, i ricordi miei che affiorano ad ogni angolo. Se pur grigia, si è colorata di sfumature argentate. Sarà stata la Liffey, che molle e sonnacchiosa, brillava dei raggi del tramonto.

Calderone di cose accademiche e cose domestiche

– La nostra eroina ha appena stampato la carta d’imbarco per Dublino, ha falsificato una lettera di presentazione del suo professore vecchia di due anni per entrare alla biblioteca del  Trinity College, dovesse mai servire, e sta appuntando gli ultimi cambiamenti alle ipotetiche domande che farà al nostro giovane scrittore emergente. Ha delle vibrazioni positive, anche se il suddetto giovane scrittore emergente ancora non le ha risposto per decidere dove e quando vedersi. Magari è influenzato, magari l’ha solo illusa e presa in giro, magari è morto. In tal caso, la nostra si sarà concessa una mini vacanza a Dublino, che non è poco.

– La responsabile di dottorato ha decretato che da oggi, tutti i dottorandi, anche quelli che si dottorano domani, devono doverosamente e necessariamente aver trascorso tre mesi all’estero. Ne va di conseguenza che questa estate, invece che so di fare un figlio, se ne andrà a trascorrere due e mesi e mezzo a Londra o Dublino, visto che il mese già trascorso per errore burocratico non verrà conteggiato.

– La casa dove la nostra eroina risiede cade a pezzi. Ora è il turno dello scaldabagno che da dieci giorni non funziona più. Ella si reca nascostamente in palestra negli orari più strani per lavarsi e farsi la doccia. Sale minacciosa l’onda dello scontento e dell’avversione per il proprietario di casa che disse: “per ora fate con le pentole dell’acqua calda e poi si vedrà” a cui la nostra replicò: “A questo punto potremo fare con l’acqua che cola dal soffitto, dicono faccia bene alla pelle”.

pezzi sparsi

– Passo una lunga serata in un locale di amici che si chiama Folkosteria dove si tiene una festa brasiliana. Assisto ad ulteriore movimento di bacino, entusiastiche espressioni di fratellanza ed energia sudamericana, dedico un minuto pensiero al mio maestro di aerobica, colombiano snodato e convinto dell’importanza del bacino, e decreto che, nell’eventualità di una lap dance (parola scelta con mire espansionistiche: questo blog non lo guarda più nessuno), io probabilmente farei il palo. Alle 2 di mattina c’è ancora un folto gruppo di brasiliani mascherati che ballano sui tavoli al ritmo di percussioni impazzite. Il tentativo di una ragazza con vestito bianco e casco di banane in testa di coinvolgermi nel movimento del bacino ha visto il completo fallimento del suo gesto, essendo la sottoscritta totalmente incapace perfino del passo ‘prendi sottobraccio la felicità’ del famoso e pluriennale ballo del qua qua qua. Che non comporta movimenti di bacino particolari.

Ma datemi lo swing, e mi vedrete trasformata.

– Studio le avvertenze generali per il concorso per docenti: legislazione scolastica, teorie dell’apprendimento, come predisporre una lezione efficace, didattica e nuove tecnologie, etc. Scopro in me un interesse che non immaginavo, ma soprattutto un desiderio di essere UnaBravaInsegnante, di fare qualcosa di creativo, di impegnarmi in un progetto più ampio, di non focalizzarmi sulle solite tre ore settimanali. Mi sento divisa in due, tra il dottorato e la scuola. Al telefono con mia sorella ci scambiamo i numeri di decreti legge, articoli della costituzione e disquisiamo sulle competenze chiave della cittadinanza attiva. Ansia.

– Correggo le lettere che mi scrivono in inglese i miei studenti, devono raccontarmi di una festa – un matrimonio, una festa in famiglia, un compleanno in discoteca – a cui hanno partecipato. Scrivono più o meno tutti le stesse cose, iniziano con le stesse frasi, seguono il modello del libro. Molti di loro dichiarano di aver ballato Gangam Style. Mmmm. Gnam gnam style, penso. Hanno scritto male… Che sarà? Cerco su Youtube, scopro che c’è un tizio con gli occhiali da sole che si agita a suon di una musica immonda. Musica che mi ripropongono in palestra. In che mondo sono finita. Colloquio con i genitori. Una mamma mi racconta che da quando c’è Bruno Mars il figlio è migliorato tantissimo in inglese.  – Sì, ha cominciato mia figlia a seguirlo, Bruno Mars, sa, e da allora anche mio figlio lo segue e niente, parlano in inglese tra loro, imparano, apprendono, è un piacere sentirli. E’ tutto merito di Bruno Mars se i miei figli stanno imparando l’inglese così bene (Grazie signora che me lo viene pure a dire, ma chi è questo Bruno Mars? è una nuova scuola di inglese? è un metodo di apprendimento linguistico che dovrei conoscere e non conosco? Sulle Avvertenze Generali per il concorso non ne parlano.. mmm… forse è un insegnante di ripetizioni famoso in tutta Roma che rende madrelingua nel giro di pochi mesi? E invece no! andate, andate a vedere anche voi chi è Bruno Mars, il nuovo Michael Jackson di noi ggiovani).

– Non contenta degli impegni e delle ansie che mi assalgono ricontatto lo scrittore irlandese. Ci accordiamo, il 2 marzo vado a Dublino a trovarlo. Mi sento un latte alle ginocchia; ricordi angosciosi mi rimandano ai mesi in preparazione dell’intervista con lo scrittore inglese, lo scorso aprile, ricordate? come dimenticare, vi ho assillato per sei mesi; incubi notturni minacciano il mio sonno. E tuttavia, lì, in fondo in fondo al tunnel, intravedo, lontanissimo, un lumino di imprevisto entusiasmo.

Piccoli momenti di gloria

Innanzitutto voglio condividere la soddisfazione del fatto che vi sto scrivendo dal treno che mi sta riportando a Roma, nonostante l’ironia di aver scoperto come collegarmi su internet in treno l’ultimo giorno in cui  prenderò il treno, visto che a Venezia ho sostanzialmente finito di andarci.

Poi, intendo condividere con voi anche che, nonostante sia una fase della mia vita in cui a fatica riesco a leggere un libro la sera, preferendo spesso un sudoku o un film; nonostante, inaspettatamente, mi ritrovi a trascorrere tre ore settimanali della mia vita in palestra, e del tempo, sempre eccedente ogni aspettativa, udite udite, in negozi di cosmetica dove acquisto a seconda dell’umore rossetti più o meno rossi, matite per gli occhi, primer e ombretti, e che altrettanto tempo io l’abbia trascorso su youtube a seguire i tutorial di Clio per imparare come applicare codesti trucchi, che per me hanno sempre rappresentato un mondo sconosciuto e misterioso; ecco dicevo, nonostante questa fase di apparente rimbecillimento (addirittura più del consueto) io oggi 14 dicembre, ad una bellissima lezione su La Banalità Del Male sia finalmente riuscita a porre LaDomanda!!! Ma aspettate!  non si è trattato solo di porre una domanda, con il fare timidino insicuro che voi oramai conoscete bene…. Ah no! dovete immaginarmi seduta in prima fila, con una gambetta accavallata sull’altra, lo sguardo acuto e la penna in mano lievemente sollevata, dovete immaginarmi con le spalle alla Lili Gruber che a un certo punto alzo la mano facendo non una domanda… ah no! Ebbene, io intervengo! non domando, intervengo! Noooo, non ci credete. Neanch’io. Intervengo interrompendo la domanda di una prof. spettatrice, dicendo, udite udite: “posso aggiungere qualcosa a questo riguardo?” per poi partire con il mio intervento (lasciatemelo chiamare intervento, sapete che la gloria dura ben poco) a cui la prof. relatrice ha commentato dicendo “più che giusto”. Insomma, sarà che sono stata minacciata con ricatti psicologici non da poco, sarà stato il meccanico in officina a spiazzarmi con i suoi paradossi (“più vuoi fare bella figura, meno ti prepari e più rischi di fare la parte dell’ebete”), sarà stato che il colloquio col mio tutor stamattina sulla tesi è stato molto piacevole e positivo, ma oggi sento di potermi permettere un po’ di soddisfazione.

Infine volevo avvertirvi che, visto che sono un po’ di mesi che vi lascio stare, non vi tormento con la questione del dottorato e delle mie performance più o meno idiote (tranne oggi), ho pensato bene, per ravvivare questo blog, di mettermi in contatto con l’altro scrittore, quello irlandese, per chiedergli un’intervista, il mio forte. La mia speranza di poter risolvere con una intervista via email è miseramente fallita subito. Lo scrittore mi invita a Dublino.

Bene, avremo di cui parlarci nei prossimi mesi.

La codina svizzera

Il soggiorno germanico ha avuto una sua codina svizzera, giusto cinque giorni per poter dire che anch’io ho fatto vacanza (i soggiorni parentali non valgono come vera vacanza). I fatti rilevanti sono stati i seguenti:

– le due settimane germaniche sono state distensive, simbiotiche, patologiche in questo modo tutto nostro femminile di entrarci nella mente in forma complicatissima e non so fino a quanto salutare di contemporaneamente amica sorella figlia mamma. Salutarci è stato come sbalzare improvvisamente l’una fuori dal corpo dell’altra, un dolore e un sollievo insieme.

– l’Irlanda, la Sardegna d’inverno e ora la Svizzera mi fanno sospettare un’inaspettata tendenza bucolica: a quanto pare i luoghi verdi, mucca-forniti – con o senza campanaccio – e i paesaggi verticali – ondulati o appuntiti che siano – rilassano molto, procurano buon umore, appetiti vari, energia positiva a grande voglia di fare.

– Molte delle mie frasi in territorio franco-svizzero suonavano più o meno così: “quando stavo in Sud America”, “quando andavo a sciare”, “quando ho fatto il cammino di Santiago”, “quando abitavo da sola”, etc. la qual cosa ha provocato probabilmente odio diffuso e generale nei miei confronti, ma anche un raro senso di onnipotenza e megalomania da parte mia.

– ho rispolverato l’amato francese dopo anni e anni e anni di negligenza. Qualcuno mi ha detto che lo parlo quasi senza accento… cosa probabile visto che snocciolo una parola ogni quaranta secondi. Quando arrivo alla fine di una frase, la conversazione è già morta da un pezzo e la gente è già andata a dormire. Bisogna anche dire che alla boulangerie dopo aver sciorinato il mio francese per prendere una quiche, mi hanno detto: forse è meglio se parliamo inglese…

– in armonia con la tendenza di queste ultime settimane, anche la vita di cantone è stata contrassegnata da violenti scoppi d’ira, improvvisi e brevi come temporali di fine estate. Il meccanico dice di non preoccuparmi, è parte del processo. Io cerco di non preoccuparmi, anche se i ricettacoli di tali ire danno segni di cedimento.

Trieste, Ulysses e desideri difficili

Una settimana fa prendevo l’odioso ennesimo treno, questa volta verso Trieste. Ai primi dieci minuti di ritardo, per paura (immotivata) di perdere la coincidenza, ho fatto una micro crisi isterica con piagnucolio penoso e donne che mi consolavano compassionevoli. Allora ho capito che devo aver superato la soglia di non ritorno. Ora per almeno un mese rimarrò a Roma. Se vi parlo di imminenti viaggi, vi prego fermatemi, impeditemelo, legatemi.

La manica di Joyciani pazzi si è rivelata simpatica, amante del pub e della Guinness, com’era prevedibile del resto, così che la mia permanenza nella città di frontiera è sembrato più un ritorno all’Irlanda mia e al regime di feste e divertimenti di tanti anni fa. Ci voleva.

Dopo quattro giorni a Trieste e un convegno su Joyce, impari ad utilizzare lo Ulysses come unico metro di valutazione, come unico parametro di misura della vita e di qualunque argomento ti salti in mente. Va da sé che se ne riparlerà qui a breve.

Ora vi scrivo un numero ancora non identificato di desideri per il futuro. Desideri che, vista la mia natura nevrotica e insicura e poco propensa a regalarsi cose belle e visto il poco tempo, vengono rimandate da anni e anni. E la mancanza di tempo, si sa, è sempre una scusa.

Uno. Imparare il Charleston. Io lo so, me lo sento, ce l’ho nel sangue. E dopo aver letto quel bellissimo libro, Superzelda, è diventato un desiderio impellente. Io lo so, in quell’altra vita ero una ballerina Charleston e portavo i capelli corti.

Due. Teatro. Però non vi spiego perché.

Tre.  Viaggio lontano e di almeno un mese, come facevo anni fa.

Quattro. Imparare un po’ di Irish, non dico saperlo parlare, ma almeno sapere come si pronuncia.

Cinque. Basta, ho già detto troppo. Ora ditemi i vostri. I desideri veri e difficili.

Chain of thoughts

Sono andata a correre in Pineta. Mentre il mio compagno di corsa, in mancanza di meglio (“me lo potevi dire che non parli mentre corri, mi portavo l’Ipod”), recitava a memoria il “To be or not to be” dell’Amleto, io, che mentre corro non parlo, pensavo:

– sempre pittoresca questa pineta. Cartoni di Tavernello e bottiglie mezze vuote di Coca-Cola abbandonate tra i cespugli, uomini con la faccia rossa e la barba di qualche giorno che dormono distesi su una panchina o per terra; un signore con la giacca di marca e lo zaino da campeggio che piscia contro un albero; in lontananza, oltre questa distesa di erba incolta e arbusti, la punta della Cupola sbuca da dietro una collinetta; una tavolata di signori in sedia a rotelle che mangiano panini e porchetta.

– questa estate a Dublino lo metterò come impegno: andare a correre ogni sera, non importa quanto, anche solo venti minuti al giorno, purché vada a correre.

– quest’estate a Dublino, noleggio una bicicletta.. Si potrà noleggiarla, anche solo per un mese?

– Prossima settimana a Trieste: non mi va. Però è bello. Però non mi va. Però ti interessa. Però non mi va. Però Trieste, che bella, la città di Joyce, di Svevo, il mare. Però non mi va. Etc.

– Ecco tutti questi pensieri. E’ perché mi sono messa a studiare, a leggere, a scrivere quel paper. E allora il retro della testa se ne va per conto suo, come sempre, con tutti quei pensieri ragnosi.

– Se ripenso all’officina degli ultimi mesi, mi pare di poter riassumere il senso di quello che mi dice il meccanico in davvero poche parole: Fai Quello Che Ti Pare. Non male, direi. Fosse facile.

– Soffoco, non respiro, mi fermo. Half-a-pippett that I am.

La vita della fattoria

Avevo circa vent’anni quando sono tornata in Irlanda. Era quello il periodo dei sacrifici e del mutuo da pagare, soldi in casa non ce n’erano. Per permettermi di fare una vacanza studio mia madre si mise in contatto con amici di amici di amici di amici. Infine trovammo una famiglia che poteva ospitarmi per circa un mese senza dover pagare nulla. Abitavano in campagna, in un paese vicino Cork che si chiamava Carrignavar. Ma che dico un paese, Carrignavar era una viuzza di aperta campagna, puntellata, di tanto in tanto, di grandi fattorie con stalle, pollai e pascoli annessi. La coppia che mi ospitava aveva otto figli di cui cinque sparsi tra Australia Stati Uniti e Inghilterra. Gli altri tre, più o meno miei coetanei, penzolavano dal divano del soggiorno al pub e sostanzialmente oziavano a spese dei genitori.

Il papà di famiglia, Dan, professione fattore, rientrava da lavoro più o meno all’ora in cui io mi svegliavo per fare colazione. Ritrovavo lui e sua moglie Nuala in cucina, intenti a friggere enormi rashers, come gli irlandesi chiamano il più comune bacon, su una piastra trasudante oli e grassi atavici. Dan, in tenuta da lavoro – maglioni stracciati, pantaloni coi buchi e le pezze e una gran porzione di merda di vacca spalmata su gomiti e polsini – si distingueva dalla moglie per l’abitudine di non usare il cucchiaino per prendere la marmellata e spalmarla sulle fette di pane tostato. Perché usare un rozzo cucchiaino, del resto, quando ci sono le dita delle mani, che sembrano fatte apposta per questo? E perché usare il tovagliolo poi, quando il maglione sporco di merda di vacca è lì per questo?

Essendo io a quel tempo impedita nella lingua, imbranata nei rapporti e in definitiva sprovveduta e incapace, non riuscii a districarmi da un luogo che si rivelò ben presto essere bellissimo nell’aspetto ma limitante e ristretto in tutto il resto. Ci misi settimane solo per capire che a pranzo nessuno cucinava e che doveva essere usanza comune quella di semplicemente andare in cucina e mettere sotto i denti la prima cosa che trovi in frigo: un cetriolo, un pezzo di formaggio, una barretta di cioccolato. Quando compresi anche che non c’erano autobus che mi portavano in città per trovare un lavoretto, conoscere qualcuno, fare qualcosa, qualunque cosa, mi ritrovai a trascorrere le mie giornate guardando la televisione, facendo lunghe passeggiate serali con un bellissimo labrador che chiamavo creamydog, andando a correre per sbollire rabbie represse e lontane. Un paio di volte tornai a casa stralunata e sconvolta perché mi avevano rincorso e quasi azzannato dei cani delle fattorie circostanti. In quei casi creamydog scappavarivelandosi un vigliacco. Qualche volta aiutavo Dan e Nuala nel lavoro entusiasmante della fattoria.

Imparai così a mungere le mucche, raccogliere le uova, e dar da mangiare ai conigli. Due volte mi chiesero di portare la macchina, e fare da apri-pista per le mandrie che mi seguivano. La prima volta feci cadere la macchina nel fossato sulla sinistra, la seconda volta presi in pieno dei rovi e strisciai tutta la fiancata. Una volta i figli di Dan e Nuala mi chiesero di aiutarli a portare le mandrie da un recinto all’altro. Mi misero al centro di un crocicchio e mi dissero: “Tu stai qui. Noi ora arriviamo con questo centinaio di mucche. Tu devi farle andare a destra, non dietro di te. Hai capito? Mi raccomando, non dietro di te, deviale a destra!”

Voi avete mai avuto a che fare con delle mucche? Sembrano tanto bonarie e innocue, ma non lo sono per niente. Sono gigantesche, ti fissano con occhi enormi lucidi e inquietanti, sono ingombranti e imprevedibili. Io ricordo che mentre stavo lì, al centro di quel crocicchio, mi sentivo minuscola e terrorizzata, e che sentivo da lontano, avvicinarsi sempre di più, con foga e velocità, il rumore di zoccoli impazziti e muggiti angoscianti. Ma voi l’avete mai sentita muggire una mucca. La mucca non fa mu. La mucca geme, strilla, urla. Io udivo, agghiacciata, gli urli sinistri di questa mandria eccitata in cerca di nuovi pascoli ed erba fresca, e che si lanciava in corsa verso di me. E io. Io dovevo deviare la loro corsa. Io dovevo fermarle e dirigerle verso destra. Io. Con la mia forza e il mio coraggio.

Arrivarono. Mi ignorarono. Andarono tutte dove non dovevano andare. La mia presenza al centro del crocicchio fu del tutto inutile. Del resto, chi era quel pazzo che si aspettava il contrario.

Ora a rivedermi lì, al centro di quel crocicchio ad attendere spaventata l’arrivo di cento mucche all’assalto, penso che quella doveva essere una perfetta metafora per quello che era la mia esistenza a quel tempo, smarrita in mezzo a persone di cui non capivo la lingua, atterrita all’idea che la vita mi raggiungesse e mi calpestasse.  Fu un bene che poi lo fece.

Sempre quella volta che stavo in erasmus ed ero inesperta e sempre ubriaca.

Abitavo tra gli altri con una coinquilina irlandese che sembrava appena uscita dal film Singles. Per mesi io e i miei inquilini ci siamo lambiccati con le ipotesi più assurde sulla vita privata di questa misteriosa fascinosa avvocato in carriera proveniente da Derry: ex-militante dell’IRA? ricca ereditiera? orfana di qualche passata tragedia?

Comunque. Non è di Deborah che vi voglio parlare stasera. Vi voglio parlare di Eoin, l’amico intellettuale di Deborah. Eoin: biondo, occhialetto di tartaruga, anello d’argento al dito. Eoin, professione drammaturgo e regista. Eoin, giovane promessa del teatro. Eoin, già diverse pièce teatrali alle spalle. Eoin, pure bello. Non bello nel senso tradizionale del termine. Bello nei suoi modi ovattati e curiosi, bello nel suo fare silenzioso e osservatore, bello nella sua voce suadente e nell’accento di Dublino (che, a Cork vuol dire tanto). Deborah mi parlava sempre di Eoin, lo devi conoscere, ti piacerà tantissimo, lui si intende di letteratura, lui ti può aiutare con la tesina su Beckett, vi capirete tantissimo.

Il giorno che mi fa conoscere Eoin mi porta direttamente a casa sua. Io, a malapena mi destreggio con la loro lingua, loro più grandi di me, più adulti, più consapevoli. Deborah mi presenta. Questo è stato il dialogo:

Deborah: “Questa è la mia coinquilina. E’ molto sofisticata. Sa tutto di letteratura. E’ una vera appassionata. Com’è carina, la vedi? Ma è anche intelligente, sai”.

io: “ehm… ciao”

Eoin: “Piacere di conoscerti”

Deborah: ” E’ anche una vera appassionata di Beckett. Deve scrivere una tesina su Beckett. La aiuteresti?”

Eoin: “Ho questo poster di una rappresentazione di Beckett che ho messo in scena un paio di anni fa. Lo vuoi? tieni, te lo regalo”.

Io: “Ehm. Grazie mille.”

Eoin: “Sai. Sarei interessato a leggere un po’ di letteratura italiana contemporanea. Non ne conosco molta. Mi aiuteresti? Cosa mi consigli?”

io: “…” (vuoto)

Eoin: “Qualche nome… italiana…”

io: “…” (vuoto più totale: italia.. contemporaneo… ne ho letto uno un mese fa…come si chiamava? come?…. è…buio….qui…dentro….)

io:”…” (buttati, inventa, inventa un nome, non lo saprà mai, inventa!)

io: “… ehm…Pirandello?”

Eoin: “… contemporanea”.

io: “…” (voglio andare a casa)

Cosa avrei potuto dire allora? vediamo….Avrei potuto dire: Baricco, De Carlo. Li conoscevo, li avevo letti. Lo so non è proprio il massimo, ma sarebbero pur stati due nomi. Eco! Eco lo avevo letto, Eco lo sapevo. Neppure Eco mi è venuto in mente.

Ora ditemi voi, perché io sto qui a raccontarvi dell’Irlanda mentre dovrei essere su word a scrivere quella presentazione orale che ho per giovedì. E intanto il tempo passa, le giornate si allungano, le notti si accorciano, le rughe si scavano, i caffè si trangugiano senza sosta, e si fanno bucati che nemmeno se mettevo il maglione grigio nel tritacarne non mi usciva così.