Ultimo

Questo blog si chiamava La Fenêtre, e ha rappresentato per me un diario che mi ha accompagnato ininterrottamente da giugno 2009 a ottobre 2018, anche se negli ultimi due anni un po’ a singhiozzo. Non ritornavo su queste pagine da tanto tempo, ma negli anni ho ripensato spesso a quanto mi dispiacesse aver fatto morire lentamente queste pagine, e che mi sarebbe piaciuto in qualche modo ridare respiro e riconoscimento a una larga parte della mia vita che, anche se in parte conclusa (in parte, perchè niente si conclude veramente, nella vita) ha rappresentato una pasaggio fondamentale nella mia crescita personale. Durante quegli anni sono successe tante e tante cose: ho cambiato casa più volte; sono diventata, con molte remore, insegnante; ho fatto concorsi su concorsi e sono passata dall’insegnamento in scuola privata al ruolo alla scuola pubblica; ho vinto, con grande paura e grande emozione, una borsa di dottorato e ho intrapreso una carriera universitaria che mi terrorizzava, ma che mi ha dato anche soddisfazioni, che mi ha fatto viaggiare e mettere alla prova in mille modi diversi. Verso gli ultimi anni di questa avventura, quando già avevo diradato le mie comparse su queste pagine, sono riuscita finalmente a dottorarmi, mi sono sposata, ho comprato casa. Infine mi sono separata, anche se non è mai detto esplicitamente nei post, ed ho rimesso tutto in discussione. Sono seguiti tempi difficili, ma anche di risoluzione di quei tormenti esistenziali che tanto compongono questo blog. E’ probabilmente in quel momento che queste pagine hanno smesso di avere per me quel potere terapeutico che hanno avuto per anni. A un certo punto era come se mi fossi svuotata, come se, su quel fronte, non avessi più nulla da dire. In effetti oggi quel modo di scrivere che mi ha caratterizzato per anni non mi appartiene più… Quel senso perenne di inadeguatezza, quel rimuginio costante, quell’affanno a sentirmi all’altezza della situazione mentre volevo soltanto nascondermi, tutto ciò non mi appartiene più, non con quella stessa intensità. L’ironia con cui affronto tutto quel malessere, la volontà di ridere e sdrammatizzare ad ogni costo, la leggerezza nel raccontare stati d’animo a volte piuttosto pesanti, sono stata la dote che mi ha salvato in tutti quegli anni, il motivo per cui, nel rileggere queste pagine, posso ridere di gusto della mia interpretazione comica dei fatti e ricordare quegli eventi con piacere e tenerezza.

Oggi voglio restituire un nuovo valore a queste pagine ed è per questo che ho deciso di dargli un nuovo nome e, se davvero sono cambiata e davvero ne ho il coraggio, di assumerne la maternità (questo blog è sempre stato anonimo) e pubblicare qualche post ogni tanto sul mio profilo Instagram o su Facebook.

Il nuovo nome lo vedete. Si chiama “Le Avventure Semiserie di una Dottoranda Fiammiferaia.” L’ho scelto perchè il dottorato è stato il grande argomento che ha occupato queste pagine, permeato da una parte dalla mia percezione di tragedia e al mio senso di inferiorità rispetto al mondo accademico tutto, e dall’altra il tentativo di raccontare i piccoli episodi della mia carriera universitaria con un minimo di distacco e ironia. (Se avete voglia di leggere i post più tragicomici, scegliete la categoria “Dottoranda fiammiferaia” e leggete solo quelli). Il sottotitolo invece rimane lo stesso: “Sto dal meccanico, per ora” e si riferisce all’altro macro argomento di questo blog, sempre e solo accennato e mai dichiarato esplicitamente, ovvero il mio percorso decennale di psicoterapia che si è concluso più o meno con l’assopirsi di questo blog. Anche il nome che mi ero scelta come nickname, Bagnarole, respira di quella stessa percezione di me come di un catorcio, un ferrovecchio, una macchina sgangherata. A quel tempo mi divertiva, mi proteggeva. Oggi credo che non lo userei più.

Ecco. Con questo ultimo post mi accomiato dalla mia piccola creatura, e contemporaneamente, cerco di dargli una nuova veste e un genitore (io:-D). Se passi di qua e leggi qualcosa, e se magari mi conosci di persona, mi piacerebbe che tu lasciassi un commento, un saluto, un piccolo segno del tuo passaggio in un luogo che è stata la me, fragilissima e fortissima, che poi è diventata

Sofia

Sono nata con in dotazione un mistero

Sono nata con in dotazione un mistero. Il mistero delle mie arrabbiature. Il mistero delle improvvise tristezze. Il mistero di un’insoddisfazione antica. Un cruccio inspiegato. Un’ansia repentina. Un’irritazione irragionevole. Cosciente dell’infondatezza di ciascun turbamento, assisto impotente ad osservarmi nuvola volgersi in temporale, ombra mutarsi in mostro marino, silenzio gonfiarsi in urlo muto. L’insensatezza alimenta il malumore, che sprofonda nel sottosuolo, ingrossando le fila del non detto.

Lo so, mi hanno detto che ogni sussulto dell’anima ha una sua ragione. Che bisogna scandagliare i fondali, ripescare conchiglie affondate da tempo, antichi vascelli naufraghi di avventure dimenticate. Mi hanno detto che ormai so nuotare, tuffarmi, immergermi in profondità, e che il fondo del mare luccica di tesori sommersi.

A volte, però, mi perdo in bicchieri d’acqua. Ombre nere minacciano il mare cristallino. Non vedo più il fondo, e temo di affogare. Mi dicono che sia proprio allora che devo tuffarmi, quando il mare è mosso, e fa più paura, è allora che bisogna immergersi, e andare a caccia di perle incrostate di fango.

Mi hanno detto anche che molte le ho già pescate, le tengo in casa, in un cassetto. Mi hanno detto di ripulirle dal fango e dalle alghe, che torneranno a luccicare al sole.

 

 

Siamo come le onde del mare

Fumiamo. Teniamo in borsa un intero kit, un taccuino in cuoio con tabacco, cartine, filtri, accendino. A volte anche un borsellino di alluminio per riporre le cicche e la cenere. Perché fumiamo, ma siamo anche salutisti. Aspiriamo a pieni polmoni le nostre sigarette di tabacco, per risparmiare ma anche perché sono più naturali, più autentiche, più ecologiche e lontane dai calcoli meschini delle multinazionali. Oppure ci trastulliamo con le nostre sottili sigarette bianche, più leggere, dicono, più eleganti: le Glamour, le Slim blue, le Gold. Stiamo sempre attenti a gettare le cicche in un bidone, mai per terra, perché all’ambiente noi ci teniamo. Tossiamo tutti. Siamo giovani ma ci perseguita questa fastidiosa tosse notturna, secca, persistente, antipatica. Promettiamo di smettere, perché non sentiamo più gli odori, i sapori. Ci soffiamo continuamente il naso, e ottobre ci porta sempre una serie insopportabile di bronchiti e raffreddori che non passano più. Poi arriva sera, usciamo, andiamo a bere e ci riaccendiamo l’ennesima sigaretta.

Compriamo il biologico, perché la salute è importante, vogliamo fare una scelta etica, dare un segnale. Prendiamo articoli che costano poco più ma che siano stati  prodotti rispettando l’ambiente. Niente zucchero trattato, mettiamo nel caffè solo zucchero di canna, compriamo l’olio del contadino, niente prodotti del discount. Prima di comprare le uova ci assicuriamo che le galline possano razzolare tranquille nella loro aia. Controlliamo sempre l’etichetta, non vogliamo conservanti. Niente salse, niente intingoli, preferiamo la cottura al vapore, la verdura fresca, la frutta di stagione. Poi la sera usciamo, ci ammazziamo di birra, ci facciamo portare i mojito, il moscow mule, il whisky, la tequila. La mattina siamo rintronati, abbiamo mal di testa. Ci beviamo subito una tisana depurante e digestiva, a base di cardo mariano e liquirizia.

Vogliamo tornare alle origini, vogliamo tornare allo stato di natura, siamo tutti amanti di Rousseau, tutti piccoli selvaggi in erba. Vogliamo una vita vera, che segua i ritmi del corpo, delle stagioni, dei cicli della luna. Scegliamo la campagna, i silenzi, la fatica. Vorremmo lavorare la terra, coltivare i pomodori e vivere della fatica del contadino. Vorremmo dismettere vestiti, cellulari, macchine. Vogliamo essere eco-friendly, girare solo a piedi e in bicicletta. Ma soprattutto vogliamo essere autentici, ritrovare, nel profondo, quel nucleo di umanità che è in armonia con l’universo tutto. In dio non ci crediamo, ma crediamo in uno spirito superiore, in un’energia positiva, in una forza primordiale che guida gli uomini e gli esseri viventi, un legame invisibile e luminoso che lega pioggia e foreste, elefanti e lupi, uomini e donne. Poi scende la sera e facciamo l’amore. Indossiamo preservativi, diaframmi, ingurgitiamo pillole che stravolgono i nostri cicli organici, pratichiamo il coito interrotto, ci dimentichiamo della saggezza dello stato di natura, del panteismo e della forza primordiale. Andiamo dal medico e ci facciamo sistemare quella insopportabile gobba al naso che ci perseguita. Già che ci siamo optiamo per la depilazione definitiva, scegliamo quella a luce pulsata , dopo attenta riflessione. Bestemmiamo, urliamo, ci scagliamo l’uno contro l’altro. Diamo la colpa alla grande città. Alla de-umanizzazione della società. Diventiamo tristi perché non funziona nulla, ci scoraggiamo per la nostra impotenza di fronte all’ottusità delle masse.

La verità è che siamo come le onde, e che non abbiamo le benché minima idea di dove stiamo andando. A volte ci sentiamo trascinati a riva, e ci sentiamo sicuri, vediamo i nostri piedi toccare il fondo sotto un mare cristallino e luccicante, e abbracciamo l’acqua trasparente colmi di gratitudine e commozione. Altre volte ci sentiamo sbattere al largo, la corrente ci trascina via, l’acqua ci sommerge gli occhi, la bocca, a stento riusciamo a rimanere a galla. Temiamo di annegare, arranchiamo.

Così diventiamo vecchi, senza una bussola, sbatacchiati dalle onde e dal vento.

Vigilia di Natale al cardiopalma

Vigilia di Natale in giro per  Roma a cercare gli ultimi regalini di natale.  Scendere dall’autobus piena di pacchetti e bustine, precipitarsi alla feltrinelli di piazza colonna. Salire allegramente al secondo piano nella sezione giocattoli, chiedere informazioni ed accorgersi solo dopo, con orrore, di non avere più la borsa. Dimenticata sull’autobus. Con tutto dentro: chiavi di casa, portafoglio, soldi, documenti, carte. Tutto. Scaraventarsi giù all’uscita in preda a panico e disperazione a cercare di capire che debba fare, sopraffatta da interrogativi agghiaccianti: dove dormo stanotte? Come torno a casa senza una lira? Chi entrerà a casa mia stanotte? E nel pieno dell’angoscia, incontrare per caso un caro amico in giro anche lui per ultimi acquisti. Attaccarmi come una cozza a lui e famiglia. Fare mille telefonate, atac, banche, questura, fabbro. Dirigersi verso casa rassegnata e  ma consolata, e ricevere in metro un messaggio su facebook dal commissariato del viminale che mi dice che un turista ha trovato la mia borsa e l’ha portata a loro, e di passare a riprenderla.  Dentro c’era tutto, non mancava niente.

Ecco, lo spirito del natale non alberga in me. Ma ieri sera mi sono ricreduta un pochino.

Buon natale a tutti.

Librone

Mi tornano alla mente vecchissime conoscenze bibliche, retaggio di una controllata e ristretta educazione cattolica, rivelatasi troppo avanti negli anni del tutto fallimentare. Interpreto a volte eventi della giornata o interi periodi di tempo con un linguaggio che ho dismesso, ma che riemerge involontariamente  in forma di blocchi fossilizzati, conchiglie che si sbriciolano nell’attimo in cui tento di tenerle in mano. Così, quando mesi fa la stanchezza e il torpore avevano ricoperto tutto come una patina grigia e opaca, risalivano alla mente  le famose parole delle nozze di Canaan, “non c’è più vino,” me le ripetevo più volte durante la giornata, e trovavo che descrivessero esattamente il mio stato d’animo. Non c’è più vino, mi dicevo, e in cuor mio pregavo senza pregare che il miracoloso corollario della mancanza di vino potesse attuarsi anche nel mio caso, e che l’acqua a cui mi stavo abbeverando a questo magro banchetto potesse essere presto trasformata in vino. Sono passati dei mesi, e questo blocco linguistico riemerso dalle profondità dei ricordi si è nuovamente inabissato, lasciandomi sola a riflettere sulla vastità di parole che non trovo più, scomparse come ghiacci sommersi sotto coltri di neve pesante.

In questi giorni invece mi sovviene la storia di Abramo e di Isacco. Mi ritorna più volte durante il giorno il pensiero di Abramo che sacrifica il suo unico figlio Isacco. Abramo riceve la promessa di un figlio in tarda età, è il bene più prezioso che ha, è suo figlio. Ma Dio gli chiede a un certo punto di immolarlo in sacrificio. C’è questo lungo viaggio che padre e figlio intraprendono. Salendo faticosamente a un monte, il piccolo Isacco chiede al padre dove sia l’agnello per il sacrificio e Abramo gli risponde, sul monte Dio provvede e, pieno di angoscia, continua il viaggio verso la sommità. E’ soltanto all’ultimo istante, quando Abramo sta per piantare il coltello nel corpo di suo figlio, che un angelo ferma la sua mano e gli dice, non uccidere tuo figlio Isacco, e misteriosamente appare un ariete impigliato nei cespugli, e Abramo sacrifica quello a Dio.

Ecco, mi torna in mente questa incomprensibile storia biblica, in cui a un padre è richiesto di uccidere il proprio figlio. E trovo che questa storia descriva nuovamente molto bene come mi sento, e quello che sto vivendo.

Autunno

Svegliarmi altrove, in una casa piccola e calda di una città lontana, una casa su un viale alberato, le foglie rosse dell’autunno ancora lucide e brillanti dalla pioggia di qualche giorno fa, e il freddo pungente di una soleggiata mattina di novembre. Una casa con un balconcino coperto, come una stanza in più aperta al mondo, con qualche pianta appesa con una corda al soffitto, e una bicicletta appoggiata alla parete. Un tavolo di legno al centro. Preparare un caffè, e berlo lentamente, sfogliando un giornale. Uscire di casa piano, senza fretta, con un quaderno in borsa, e un libro da leggere, una sciarpa di lana attorno al collo, e i guanti. Fermarmi in un bar, di quelli con gli sgabelli alti accanto alla finestra e prendere un altro caffè. Guardare fuori dalla finestra la gente che passa, a lungo. Immaginare le vite delle persone, oppure non pensare a nulla. Godere del silenzio e della pace. Attendere che le parole tornino, e scriverle piano sulla carta.

Volente o nolente

– Volente o nolente trascorro alcuni giorni sola a Roma. Roma d’estate. Quella degli acquazzoni improvvisi e del caldo torrido; quella degli odori acuti e pungenti che salgono dall’asfalto e dagli angoli sporchi delle strade; quella delle metro gremite di turisti in sandali e cappellini insensibili al sole cocente; quella del fresco della sera, dei parchi verdi, dei piccoli locali illuminati. Sono contenta della mia estate romana, e non me lo sarei mai aspettato. Trascorro pomeriggi in piscina, in solitaria o con amiche, assorbendo il sole urbano e l’acqua clorata come ottimo palliativo del mar tirreno; leggo, nuoto e di fatto mi crogiolo mutamente sotto il cielo limpido di questi giorni. Altre volte vado in pineta a leggere, verso il tardi, e mi soffermo a contemplare l’atmosfera decadente e degradata di quel fazzoletto di terra che si srotola proprio dietro casa: dei ragazzini che giocano a calcio, due vecchietti che si guardano intorno, i cani, qualche ubriaco e la gente che corre. Alcune sere vado a un parchetto nelle vicinanze ad allenarmi con altre persone della palestra. Ormai qualunque attività fuori casa e di movimento del corpo mi provoca grandi picchi di benessere e grande contentezza, e il fatto che la mia istruttrice prediliga allenamenti di tipo militare e non si fermi davanti a gomiti bruciati e ginocchia scorticate è passato in secondo piano. Due sere a settimana vado a lezione di lindy hop, facendomi quaranta minuti di metro andata e quaranta a ritorno. Sto in mezzo a sconosciuti, a momenti mi sento abbastanza scema, ma poi mi diverto e passo un’ora così, senza pensare a niente. Esco dalla palestra alle 9 di sera circa, e la prima cosa che mi chiedo è: dove mangio di bello stasera? Mi sento addosso la festa di cenare fuori la sera, anche se poi prendo semplicemente un pezzo di pizza al taglio. Ieri invece era domenica, e sono andata nel tardo pomeriggio a Villa Pamphili, dove ho scoperto  che ogni giorno dalle 7 alle 8 c’è una lezione gratuita di yoga all’aria aperta. Non avevo mai provato, ed è stato molto bello. Pioveva a dirotto. Nonostante la pioggia, mi sono rilassata, a contatto con gli alberi e con le mie braccia, i pensieri si sono acquietati, ed ho respirato di un respiro profondo che mi ha accarezzato tutto il corpo. Spesso sto a casa. Leggo il mio libro, guardo serie tv e ascolto musica, scegliendo accuratamente il cd dalla moltitudine che ci sono qui in casa, oggi per esempio, i Soundgarden. Ieri, Cat Power e Beach Boys. I giorni scorsi, Bruce Springsteen, Queen of the Stone Age, Wilco. Ma se posso, cerco di stare a casa il meno possibile.

– Oggi pomeriggio immaginavo di andare a fare un  bagno al fiume. Una pozza fredda di acqua, i girini, le rane, i pesciolini che ti sfiorano le caviglie, il sole addosso, la pelle calda, il contorno onirico di un angolo di natura a due passi dalla metropoli. Chiudo gli occhi e immagino di calarmi nell’acqua gelata. Nonostante il sole c’erano dei forti tuoni, e nuvole nere alle nostre spalle, nascoste dagli alberi. A un certo punto però si metteva a piovere a dirotto, fortissimo. Uscivamo dall’acqua, indossavamo i nostri vestiti fradici e correvamo via sul letto del fiume, a piedi nudi. Ci rimettevamo le scarpe soltanto dopo, per risalire, e più tardi, a casa, mi ricordavo la sensazione dei piedi bagnati e infangati dentro le scarpe. Sarebbe stato uno di quei temporali estivi indimenticabili, con gocce grosse come sassi e il ticchettio della pioggia prima sull’acqua del fiume, e poi sui vetri della macchina. Sarebbe stato un pomeriggio a tratti felicissimo, ma quella felicità non sarebbe bastata a portare via tutta quell’altra tristezza e quel silenzio, che sarebbero rimasti lì, a guardarci, tutto il tempo.

– Il viaggio in India si è trasformato in un viaggio in Thailandia, da sola, di due settimane. Parto con un gruppo dei viaggi del Vagabondo, di cui non conosco nessuno. Leggere il programma dei viaggio ha suscitato euforia e intensa emozione in un periodo in cui la gioia più grande  era quella di svagarmi in palestra due volte a settimana. Visiterò la capitale, un’altra città e poi le isole a sud nel golfo di Thailandia, e ci saranno giri in bicicletta, passeggiate nella foresta, immersioni, feste notturne sotto la luna piena e grandi mangiate di pesce. La mia emozione si accompagna ad una certa inquietudine, ma oramai ho  imparato a conviverci.

Cioccolatino

Ripasso in quinta in vista dell’esame di maturità.
– Allora ragazzi, abbiamo parlato di Joyce, chi mi sa dire che cosa si intende per “epiphany”?
– Ah si prof. “epiphany”, quella del cioccolatino!
– …
(processo mentale sottostante: Joyce- Epiphany- Proust- Madeleine – Cioccolatino….Epiphany = Cioccolatino)

my oh my